martedì 1 aprile 2008

Bacon, ottimista sul nulla

Fu egli stesso a definirsi così: optimistic about nothing. Era il 1985, e alla Tate Gallery di Londra si inaugurava la seconda retrospettiva a lui dedicata. In quella occasione, il giornalista della BBC Melvyn Bragg volle incontrare il grande pittore nei suoi luoghi familiari: l’atelier, il casinò, il Colony Room (un drinking club di Soho, aperto nell’immediato dopoguerra da un’anticonformista signora di nome Muriel Belcher)… Il lungo e suggestivo video che ne nacque si può vedere oggi a margine della mostra antologica di Palazzo Reale: un centinaio di opere quasi tutte mai viste in Italia, che ripercorrono il percorso di Francis Bacon dai primissimi quadri degli anni Trenta fino agli ultimi grandi trittici dipinti poco prima della morte avvenuta nel 1992.

Ma quale ragione ha Bacon per dirsi ottimista? Nessuna. Non c’è niente al mondo per cui valga la pena essere ottimisti: nothing. Il suo credo non potrebbe essere più radicale: we live, we die and that’s it (viviamo, moriamo, e questo è tutto). La vita non è che una corsa verso la morte, e la morte è già incisa in essa (così viviamo in un continuo prendere congedo, recita l’ultimo verso dell’ottava elegia duinese di Rilke).

L’arte non è responsabile della violenza che rappresenta, non è neppure in grado di produrre più violenza della vita:
you can’t be more horrific than life itself, dice Bacon, rispondendo indirettamente a Margaret Thatcher, che lo aveva liquidato definendolo that man who paints those dreadful pictures (quell’uomo che dipinge orribili quadri). D’altra parte, a Bacon manca il senso del tempo per coltivare una qualche forma di prospettiva o di fiducia nell’avvenire: I’ve no story to tell (non ho storie da raccontare). Il che significa che nessuna vicenda si dispone in qualche forma di ordine logico o cronologico. Tutto è caos, e nel caos non c’è un prima e un dopo, un inizio, uno sviluppo, una fine: gli elementi costitutivi di una storia. C’è una simultaneità incongrua e magmatica, nella quale le diverse forme si avviluppano in un’incessante creatività distruttice.

Eppure… Eppure laddove lo sguardo comune coglie soltanto un motivo di disperazione, l’arte vi scorge una remota bellezza, guidata da quella medesima ambivalenza di angoscia e di meraviglia da cui per i greci scaturisce la filosofia. Ecco il fondo dell’ottimismo baconiano: il fetore del sangue umano è sorriso per me, aveva scritto Eschilo, e nessun verso potrebbe corrispondere meglio allo spirito della sua opera.

La deformazione dei corpi è lo strumento che egli trova a sé più congeniale per rappresentare quel continuo moto di distruzione e creazione della realtà e, nello stesso tempo, continuare a essere pittore figurativo (ossessivamente figurativo) in un’epoca dominata in gran parte dall’astrattismo. Ma la deformazione in Bacon non ha intenti grotteschi e neppure realmente dissacranti. Nell’era del crepuscolo degli dèi, che cosa potrebbe rimane da dissacrare? Tutto si è già consumato.

A modo suo, Bacon è piuttosto un realista, animato da una profonda carica erotica, un’attrazione sensuale per l’esistenza, per le sue forme, il suo movimento (il movimento è un’altra delle sue ossessioni). È significativo che si dica indifferente all’immaginazione. Né è un caso che dipingesse dal lato “sbagliato”, e cioè sul retro della tela: quello non preparato. È una scelta che gli impediva di correggere, costringendolo a bruciare i quadri che giudicava non riusciti. Ma è una scelta che gli permetteva anche di assecondare l’impulso vitale, e riprodurne l’unicità irripetibile: perché sul lato “sbagliato” i pigmenti assumono una forza propria, autonoma e assoluta.

BACON
Milano, Palazzo Reale
fino al 29 giugno 2008

1 commento:

Anonimo ha detto...

A RICORDO DI UN GRANDISSIMO ARTISTA.

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