
lunedì 20 dicembre 2010
L’immaginazione erotica ai tempi del web

venerdì 29 ottobre 2010
Il Manifesto di ottobre: io sto con i congiurati
giovedì 14 ottobre 2010
C'è indeciso e indeciso

giovedì 23 settembre 2010
Le maniche di Bersani
mercoledì 15 settembre 2010
Chi ha ucciso il Pd?
giovedì 9 settembre 2010
Le ambizioni e gli omissis di Futuro e Libertà
venerdì 3 settembre 2010
L’assurda strategia del Pd
giovedì 26 agosto 2010
Bye, bye, PD
mercoledì 25 agosto 2010
Chi farà la rivoluzione liberale?
lunedì 16 agosto 2010
Diabolik, criminale ed eroe

sabato 31 luglio 2010
Seconda Repubblica: siamo alla crisi finale?
lunedì 26 luglio 2010
Nucleare: cosa pensa il PD?
lunedì 5 luglio 2010
Processo al PD
lunedì 3 maggio 2010
Le pupe, i secchioni, e gli altri

sabato 24 aprile 2010
La scienza al servizio degli affetti
Domenica 11 aprile, il mio micio Nicky è caduto dalla finestra, riportando una brutta frattura multipla alla zampa posteriore sinistra: tibia e fibula. L’incidente è avvenuto attorno alle 11,30, non so come, non l’ho visto: stavo parlando al telefono. Devo ringraziare una vicina per avermi avvertito. Altrimenti sarebbe rimasto da solo in cortile finché, non sentendolo (è un chiacchierone instancabile), non mi fossi preoccupato.
Appena verificate le sue condizioni, l’ho portato alla clinica veterinaria San Siro, in via Lampugnano, a Milano, dove è stato preso in cura da un gruppo di dottoresse. Vi lavorano anche maschi. Ma a occuparsi di lui sono state solo donne. E una donna è anche l’ortopedica che, martedì pomeriggio, lo ha operato: la dottoressa Liliana Carnevale. Ne faccio il nome, perché il merito va sempre riconosciuto. E perché mi piace esprimerle pure qui la mia riconoscenza.
Ma Nicky non era nelle condizioni migliori per apprezzare le cure femminili. In altre occasioni, gli sarebbe piaciuta la loro compagnia, è un monello molto socievole, narcisista sino all’inverosimile, ama stare al centro dell’attenzione. Anche la vicinanza dei cagnetti in genere non lo disturba (ce n’era uno, operato da poco, che faceva tenerezza). Anzi, lo incuriosiscono e ci gioca volentieri, purché non abbaino e purché cedano a lui la leadership. Ma in clinica...
Lo spavento era troppo forte. E, poi, non è mai a suo agio fuori casa, se non ci sono anch’io. Così, per cinque giorni non ha mangiato. Nulla. Neppure la sua pappa preferita – tonnetto e spigola –, che gli ho portato io (sono andato a trovarlo tutti i giorni). Se ne stava in silenzio, accucciato in un angolo della sua celletta. Attaccato alla cannula della flebo. Non miagolava, non si lasciava toccare. Per queste ragioni, è stato dimesso in anticipo, giovedì sera.
La prima notte a casa, stordito dagli antibiotici, l’ha passata nel gabbiotto che gli ho noleggiato su raccomandazione della dottoressa Carnevale, perché deve restare a riposo e non poggiare sulla gamba operata. Il giorno dopo ha voluto girare per l’appartamento a controllare che tutto fosse come prima. Ci ha impiegato parecchio, perché per il momento cammina su tre zampe e si stanca. L’ho lasciato fare (standogli comunque sempre accanto), perché ho intuito la sua preoccupazione. Una volta sinceratosi che nessuno gli aveva spostato le sue cose e che niente era cambiato, è tornato sereno a riposare.
Ma non nel gabbiotto. Lì non c’è verso di farlo stare. Anzi si agita, ed è peggio. Sopra, sì: ci sta volentieri (la nonna gli ha messo una coperta sul tettuccio). Dentro no. È abituato a dormire sul letto, ed è quello il luogo che ha scelto per la sua convalescenza. Ho preferito non forzarlo. Non vorrei che nel gabbiotto, dannandosi per trovare una via di fuga, si faccia male. Solo quando in casa non c’è nessuno che possa controllarlo nelle sue escursioni lo rimetto dentro.
In ogni caso, ha recuperato umore e voglia di mangiare. E questo per il momento è quel che più conta. A volte, sembra addirittura dimenticarsi di essere invalido, e poggia la gambina più di quanto dovrebbe o addirittura accenna uno scatto. In questi casi, lo prendo in braccio, per fargli passare la nostalgia dell’avventura (è una nostalgia che conosco bene, e posso capirlo). Lo lascio comunque sperimentare. In fondo, sa ascoltare il suo corpo meglio di quanto io sappia fare con il mio. È nella sua natura. Mi limito ad assicurargli un ambiente sicuro. Quindi, porte chiuse nelle stanze dove c’è un tavolo.
Nondimeno, di notte, i primi giorni avevo timore che potesse fare un passo falso. I mici sono tali testoni! Non sai mai cosa gli passa per la testa! (Curiosity killed the cat, recita un proverbio americano.) Ma, non potendo andare a caccia come gli piace, viene a stendersi accanto a me, sotto le coperte, con la testa sul mio braccio. Si rassicura lui, e mi rassicuro pure io. Quando non lo sento, mi sveglio. Sto ad ascoltare se per caso non sia in bagno, e in tal caso aspetto che torni. Altrimenti lo vado a cercare.
L’incidente, d’altronde, mi ha procurato un grosso senso di colpa. Tutto questo non sarebbe successo se avessi chiuso la finestra. È pur vero tuttavia che so quale spasso è per lui salire sul davanzale e da lì saltare sul balcone della cucina. È giusto togliergli una tale soddisfazione? Anch’io per il piacere mi prendo qualche rischio. Perché lui non dovrebbe? Perché non avrebbe diritto a divertirsi?
Lo lascerò fare quando sarà tornato a trotterellare come prima? Non lo so. Non riesco a cacciare dagli occhi il suo sguardo quando l’ho portato in clinica. Era lo sguardo supplichevole di chi chiede aiuto e protezione. E io mi sentivo impotente. Non potevo fare nulla per aiutarlo. Se non lasciarlo lì dove non voleva restare, fra le mani esperte di quelle dottoresse (ho visto con quale sicurezza lo sapevano trattare) che, pure, per lui erano soltanto figure estranee.
Mi è rimasto dentro quello sguardo perché vi si poteva leggere qualcosa di universale. Ha ragione Umberto Saba: «il dolore è eterno, ha una voce e non varia.» Ed era dolore fisico e angoscia: cos’avrà pensato quando l’ho salutato e sono andato via? Ha temuto che non tornassi più? Si è chiesto se per caso non gli volessi più bene?
Ma lui e io apparteniamo a un mondo privilegiato. Nicky ha avuto cure che meno di mezzo secolo fa gli uomini se le sarebbero sognate, e ancora oggi sono precluse alla maggioranza degli abitanti del nostro pianeta. Questo lui non lo saprà mai. Io sì... Certo, cambiare il mondo non è uno scopo alla mia portata, e neppure alla portata dell’Occidente o della politica o delle masse o dei social forum o dei no global. Per quel che mi riguarda, non ho neppure una preghiera da donare a chi ha avuto la sfortuna di nascere nell’emisfero sbagliato... Però, non posso impedire al pensiero di interrogarsi sulle contraddizioni della giustizia...
E neppure di porsi un altro problema di carattere sociologico-culturale. L’applicazione delle più moderne tecniche medico-chirurgiche alla veterinaria è senz’altro conseguenza del mercato. La chirurgia veterinaria ha potuto svilupparsi perché vi è una domanda, e cioè una disponibilità da parte dei proprietari di animali domestici a spendere per i loro piccoli cari.
Questo mercato tuttavia è a sua volta conseguenza del cambiamento intervenuto nei rapporti che abbiamo con i nostri animali domestici. Gli uomini hanno sempre vissuto insieme agli animali, hanno sempre diviso gli spazi con loro. Ma, nelle società rurali, gli animali occupavano i nostri stessi spazi perché utili, e cioè perché fonte di sostentamento o compagni di lavoro. Nella civiltà postborghese, gli animali vivono insieme a noi perché appartengono alla famiglia, cioè per ragioni affettive.
Tale ampliamento della dimensione affettiva è certamente un fatto positivo, molto positivo. O, meglio, sarebbe un fatto positivo se non fosse che tale fenomeno si inserisce in una cornice alquanto preoccupante, caratterizzata dal progressivo disfacimento di quell’educazione sentimentale che è stata il fattore distintivo della civiltà borghese alle sue origini (il romanzo ottocentesco deve a questo tema la sua fortuna).
L’indipendenza della nazione non è nulla se non si accompagna all’indipendenza del singolo, economica e affettiva. Questa era la convinzione alla base della cultura illuministico-democratica. L’autonomia nazionale è un valore solo in quanto avvantaggia l’autonomia degli individui che compongono la nazione, ossia in quanto offre loro gli strumenti per decidere di se stessi e progettare il proprio futuro.
Lavoro e amore sono i due principali fattori di stimolo alla maturazione individuale del romanzo d’iniziazione sette-ottocentesco. Si diventa adulti (ossia economicamente indipendenti) guadagnandosi da vivere con la fatica del lavoro e si diventa adulti (ossia interiormente maturi) imparando a disciplinare gli alterni sentimenti che proviamo nel rapporto sempre problematico con la persona amata.
La coscienza borghese sette-ottocentesca sapeva molto bene che tali sentimenti possono sfociare in esiti distruttivi (per rendersene conto basta riascoltarsi il Don Giovanni di Mozart). Proprio per questo avverte la necessità di un’educazione sentimentale che trasformi la passione amorosa in qualcosa di più fertile e duraturo. Il senso moderno della famiglia nasce da questi presupposti (indipendentemente dalle ragioni religiose, che può avere o non avere), e si contrappone tanto alla casata nobiliare quanto alla famiglia rurale, l’una e l’altra soffocate dalla convinzione che il singolo debba attenersi a una morale superiore a lui (due esempi: Piccolo mondo antico nel primo caso e Padre padrone nel secondo).
Nella società postborghese dominata dalla Tecnica – quindi da una percezione frammentaria del tempo: un presente continuo continuamente oltrepassato –, sarebbe probabilmente assurdo pretendere che gli individui possano confidare in qualche forma di autodisciplina e di educazione. Ci si può proiettare verso il futuro solo se il futuro è percepito come prevedibile, cioè non troppo diverso dalla realtà attuale. Non si investe al buio. Neppure nel campo degli affetti. A meno che... A meno che l’apparenza non ci inganni, e non ci faccia scambiare per cambiamento quel che in realtà è l’eterno ritorno dell’eguale...
Mi rendo conto di essermi allontanato parecchio dall’argomento iniziale. Anche se un collegamento c’è. Mi fermo qui, su questi temi del resto scrivo di continuo, sono i miei temi, quelli che considero fondamentali e che mi guidano persino quando mi avventuro nella nostra stanca e stancante cronaca politica.
giovedì 25 marzo 2010
Per gli ottant'anni di Vittorio Spinazzola
Non so dove trovassimo il tempo. Sta di fatto che negli anni Settanta, al liceo, gli scrittori contemporanei non solo li leggevamo, ma addirittura li commentavamo in classe e li portavamo all’esame di maturità. I nomi sono quelli entrati a far parte del canone del Novecento: Svevo, Moravia, Gadda, Elsa Morante, Pasolini, Calvino, Sciascia... E poi Thomas Mann, Musil, Bulgakov, Camus, Sartre, Céline, Kerouac, eccetera, eccetera.
La novità era duplice. Erano autori contemporanei (alcuni viventi) e, soprattutto, erano romanzieri. Credo sia difficile cogliere la portata innovativa di questo secondo aspetto, oggi che la civiltà del romanzo si è definitivamente acclimatata anche da noi. La gerarchia dei generi che ha dominato per secoli la nostra tradizione letteraria è stata ribaltata negli ultimi decenni. Ma sino a poco tempo addietro era la poesia a detenere il primato assoluto dei generi. Né la neoavanguardia lo aveva messo in discussione. Anzi, nonostante il duro colpo inferto alla lirica – abbandonata a favore delle sperimentazioni poematiche o visive o astratte –, lo aveva ulteriormente rinforzato ponendo il massimo dell’attenzione sugli aspetti di linguaggio e affidando alla poesia una missione addirittura eversiva.
Poco dovrebbe stupire invece il carattere internazionale delle letture sopra menzionate. Il cosmopolitismo, in effetti, è una peculiarità congenita alla letteratura italiana e all’educazione umanistica in Italia. Lo abbiamo nel nostro DNA. Semmai il nostro difetto è quello opposto: la scarsa disponibilità a rappresentare in termini estetici il destino collettivo della nazione.
L’ingresso della contemporaneità e del genere romanzo nei licei – ossia nelle sedi deputate a trasmettere la cultura classica – fu senz’altro uno degli effetti positivi del movimento sessantottesco, che pure per altri aspetti lasciò un’eredità pesante, spesso nefasta per la scuola. Oggi lo possiamo dire anche da sinistra. Il ’68 tuttavia contribuì anche ad altri due risultati largamente positivi: la costituzione delle prime cattedre di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea nelle facoltà di lettere e la riapertura, da parte degli scrittori, del dialogo con il pubblico che era stato interrotto dalle sperimentazioni neoavanguardistiche.
Non ricordo perché scelsi di iscrivermi a lettere (mi sarebbe piaciuto anche studiare matematica o fisica). Ma, una volta presa la decisione, fu naturale per me seguire le lezioni di Vittorio Spinazzola, docente alla Statale di Milano appunto di letteratura italiana contemporanea. Era quella la direzione verso cui mi spingevano le letture fatte al liceo e gli amori letterari che ne erano nati. D’altronde, Spinazzola era un critico militante che conoscevo da tempo per i succosi articoli che andava pubblicando su «l’Unità». E senz’altro questa sintonia politica ha concorso a farmi decidere, praticamente fin da subito, di laurearmi con lui.
Ciò che non potevo immaginare è che Spinazzola mi avrebbe spalancato le porte di un mondo nuovo e mi avrebbe fornito gli strumenti per esplorarlo. Questa è la virtù dei grandi maestri, e lui lo è stato per una generazione e oltre di studenti (le tracce della sua impronta sono reperibili in tutto ciò che scrivono i suoi allievi). I testi già letti o scoperti per la prima volta nei suoi corsi – Gramsci, Dossi, Gadda, Arbasino, Pasolini... – acquistavano, attraverso le parole di questo grande intellettuale, una limpidezza nuova: non ponevano resistenza allo sguardo critico, si svelavano docilmente nei loro aspetti costitutivi. E, soprattutto, lasciavano trasparire il reticolo di rapporti che li legavano al nostro destino, alla vita del Paese.
Perché questa è l’originalità di Spinazzola. Da un lato, egli non esita ad appropriarsi dei molteplici utensili di analisi testuale approntati dalle differenti scuole della critica novecentesca, inclini a concentrare l’interesse sui materiali compositivi e sulla loro disposizione strutturale. Dall’altro lato, ripropone in forme personali e aggiornate quell’interesse per la storia che gli deriva dalla linea De Sanctis-Gramsci e dalla frequentazione di un marxismo lucidamente interpretato, senza nessuna concessione alle derive deterministiche che hanno gravato su gran parte della critica di sinistra.
Ma, soprattutto, l’interesse prevalente per il romanzo ha portato Spinazzola ad approfondire il rapporto che un testo intrattiene costitutivamente con il pubblico L’avverbio è importante: costitutivamente. Vuol dire che quello che un testo stabilisce con i suoi destinatari reali non è un rapporto accidentale, che può sussistere o meno. No, è un rapporto imprescindibile, necessario. Detto molto semplicemente, non c’è letteratura senza un pubblico che riconosca una qualità letteraria al testo che ha sotto gli occhi. Persino il maggiore dei capolavori è destinato a restare nell’oblio in assenza di un lettore che ne colga le peculiarità di eccellenza estetica.
Da questo ampliamento dell’orizzonte critico che studia il testo in chiave funzionalistica considerandone i destinatari nascono i volumi teorici di Spinazzola, nonché alcuni splendidi saggi monografici che riesaminano in una luce inedita i giganti del nostro passato recente: Manzoni, Verga, De Roberto, Pirandello... Da qui derivano anche due annuari realizzati in collaborazione con i discepoli e provocatoriamente intitolati Pubblico e Tirature (di quest’ultimo cade quest’anno il ventennale).
Questo uomo mite e intellettualmente rigorosissimo, d’altronde, ha sempre avuto il gusto della provocazione intellettuale. È stato uno dei primi a prendere in esame senza pregiudizi quei prodotti della fantasia creatrice che l’accademia snobbava: il cinema, il fumetto, i generi della narrativa di consumo e addirittura quelli della letteratura marginale, pornografia compresa. Tutti prodotti che i custodi del gusto liquidavano come letteratura spazzatura.
Una cosa però va precisata. Spinazzola si è sempre ben guardato dal confondere i valori letterari. Neppure si sognerebbe di collocare sullo stesso piano, poniamo, il Pasticciaccio di Gadda e i romanzi di Camilleri. Questo non gli ha impedito di chiedersi perché fra i moltissimi polizieschi pubblicati ogni anno quelli del gran vecchio siciliano vendono migliaia di copie e quelli dei suoi concorrenti no. Che cosa posseggono che gli altri non hanno?
Per rispondere seriamente a questa domanda – e cioè accantonando le risposte preconfezionate –, non abbiamo che un modo: prendere in mano i testi e sottoporli al vaglio critico, impiegando gli stessi strumenti che utilizziamo per le opere degli autori più blasonati e graditi alla comunità dei lettori di professione.
Qual è dunque il senso della lezione lasciataci da questo grande dell’intellettualità italiana? Io la riassumerei in due punti. Primo: Spinazzola ci offre l’esempio di un umanesimo autentico, che non rinuncia alle sue prerogative (il rigore dell’analisi, l’importanza del linguaggio...), ma neppure si ritrae di fronte ai fenomeni della modernità, che anzi si sforza di comprendere senza tentazioni consolatorie. Secondo: Spinazzola ci permette di cogliere le potenzialità positive di una democrazia culturale che in Italia continua a essere molto gracile, almeno quanto la democrazia politica, ma che nondimeno è uscita dalle sacche dell’aristrocraticismo più baldanzoso.
Qui sta anche il motivo di maggiore interesse pubblico della sua ricerca. Spinazzola è stato un validissimo polemista. Ma tutti i suoi testi, non solo quelli militanti, sono percorsi da una robusta tensione politica. Tuttavia tale tensione non si esprime nel giudizio ideologico, bensì nell’esercizio di un’intelligenza critica posta al servizio di un ampliamento della civiltà culturale e cioè della democrazia in Italia.
venerdì 19 marzo 2010
Come si fa un libro
Libri come. Festa del Libro e della Lettura
Auditorium Parco della Musica - Roma
Garage - Officina 5, ore 21
Presentazione del libro Tirature 2010 Autori, editori, pubblico: i vent’anni di Tirature
A cura della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e Il Saggiatore.
Info: Auditorium Parco della Musica