lunedì 16 agosto 2010

Diabolik, criminale ed eroe


La prima storia a fumetti di Diabolik appare nel caratteristico formato tascabile 12 x 17 centimetri il 1° novembre 1962. Titolo: Il re del terrore. Autrice, la milanese Angela Giussani, a cui dal quattordicesimo albo s’affiancherà la sorella Luciana. La fisionomia dell’eroe negativo che dà il titolo alla serie e quella dell’ispettore Ginko, suo antagonista, sono già messe a fuoco.
Ma l’intreccio dei rapporti che i due personaggi maschili intessono e lo scenario urbano che fa da sfondo alla loro eterna sfida si completeranno negli episodi successivi. Qui mancano ancora le due coprotagoniste femminili, Eva Kant e Altea di Vallenberg. Quanto alla location, siamo in un’immaginaria cittadina nei pressi di Marsiglia, che soltanto successivamente sarà rimpiazzata dalla celebre Clerville.
La felice decisione della Mondadori di ristampare trenta albi a partire dal n. 101, anno 1967, riproposti a colori in allegato al settimanale Panorama, offre l’opportunità di apprezzare il mito di Diabolik nella sua fase matura. Ma quel primo numero, ambito da tanti collezionisti, consente già di rispondere a una domanda di fondo.
Cos’ha di demoniaco Diabolik? Sul piano della caratterizzazione fisica, gli occhi: «occhi che hanno il bagliore dell’acciaio, diabolici... che non appartengono a un essere umano» testimonia Clelia Garian, la povera gentildonna ricoverata in una lussuosa clinica perché creduta a torto malata di mente. Ma la dote diabolica più importante per gli sviluppi narrativi è di natura intellettuale: l’arguzia.
Un’arguzia addirittura cervellotica, in grado di concepire piani estremamente intricati, com’è appunto quello all’origine del Re del terrore (un epiteto che tornerà costantemente nei successivi capitoli della saga). La complessità irrealistica delle trame, che trova nello scambio di persona il motivo di più efficace dinamismo, deriva per l’appunto dalle eccezionali quanto perturbanti risorse inventive di questo personaggio sempre pronto a confondere apparenza e realtà.
Quello che manca a Diabolik è invece il piacere di provocare il male per il gusto del male, quella beffarda eccitazione sadica che contraddistingue il Joker del ciclo di Batman o il Kriminal della coppia Max Bunker e Magnus (pseudonimi rispettivamente di Luciano Secchi, autore dei testi, e del disegnatore Roberto Raviola). Cinico sì, nichilista no: Diabolik questo proprio non lo è.
Certo, la creatura delle sorelle Giussani non ci pensa due volte a uccidere quando le circostanze non lasciano alternative. Ma l’impulso non gli deriva mai dalla bestialità omicida. Diabolik ha una concezione funzionalistica dell’assassinio, di cui si serve come extrema ratio per conseguire il suo scopo: impossessarsi dei beni e delle ricchezze su cui posa lo sguardo. E tale scopo, sempre presente alla sua coscienza, ne assorbe tutti i pensieri, non concede il men che minimo spazio all’irrazionalità.
Sostanzialmente, Diabolik è un calcolatore, un eroe del razionalismo posto al servizio del crimine. Capace di adattarsi alle situazioni, se necessario sa cambiare repentinamente tattica. In ogni caso le sue mirabolanti azioni escludono l’improvvisazione, sono frutto piuttosto di un meticoloso lavoro preparatorio che in taluni casi può apparire persino antieconomico: non sempre difatti il profitto conseguito corrisponde alla fatica profusa e all’entità dei rischi corsi per il suo raggiungimento.
Ma forse proprio qui s’annida il motivo di maggior originalità e interesse di questo mito: la mentalità calcolatrice di Diabolik è quella del predatore, non quella dell’homo oeconomicus. C’è qualcosa di premoderno, di ancestrale al fondo di questo personaggio che s’aggira nella giungla del presente metropolitano prendendo quanto gli serve per soddisfare il proprio piacere senza tuttavia farne mai davvero parte. Non a caso, del resto, i suoi strumenti di lavoro prediletti non sono i revolver, i mitra, i bazooka, le armi della contemporaneità. No, sono i pugnali, i veleni, le maschere: tutti simboli attinti al teatro classico.
Naturalmente, Diabolik condivide i valori supremi dei membri dell’alta società che deruba: il benessere materiale, i comfort, il lusso, la vita agiata... Ma non riconosce il diritto che legittima i loro agi: né quello ereditario proprio dei ceti aristocratici (Eleonora de Simily, la sua prima vittima, è una marchesa) né quello fondato sulla fatica del lavoro o sull’investimento imprenditoriale che accomuna l’alta borghesia capitalistica. Neppure si preoccupa di contestare il diritto altrui e tanto meno si sogna di giustificare concettualmente la propria condotta di vita. Semplicemente, se ne infischia.

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