giovedì 23 settembre 2010

Le maniche di Bersani


In questi giorni, i muri delle città sono tappezzati dai manifesti del Pd con il ritratto di Pierluigi Bersani. Perché ora? È presto anche per il tanto temuto voto anticipato. Evidentemente, il partito democratico avverte la necessità di rafforzare l’immagine del proprio segretario, alquanto appannatasi dopo il congresso. E su quello punta. Gli strateghi della comunicazione piddina, a tal scopo, hanno scelto di evitare il faccione, ormai prevalente nel pieno delle campagne elettorali, preferendo il piano americano (piedi tagliati).


Bersani è ritratto seduto su uno sgabello in una posa frontale e disinvolta (mano sinistra appoggiata sull’interno della coscia, mano destra abbandonata tra le gambe allargate), ma il busto è eretto e lo sguardo rivolto verso lo spettatore. Indossa la camicia bianca, indice di distinzione, ma si è levato la giacca, ha la cravatta allentata e il primo bottone slacciato, e si è rimboccato le maniche: tutti segni che mirano a trasmettere l’immagine di un uomo al lavoro per il bene collettivo. La scelta del bianco e nero contribuisce a sottolineare un’eleganza antica, una solidità caratteriale che il presente ha perduto e che si pensa debba essere recuperata. Forse vi è anche l’intento di sottolineare il carattere virile del segretario, di enfatizzare quel sex appeal che il sempre prolisso Eugenio Scalfari trova mancante in questo partito.
Ma perché Bersani è seduto? Si sta riposando? No, è semplicemente in posa. E, infatti, alle sue spalle c’è solo il bianco: niente sfondo. Questa figura trasmette una serietà avulsa da qualsiasi contesto iconografico. Viene presentata nella sua assolutezza. Il focus è tutto sulle sue qualità interiori, sulle sue virtù morali. Non c’è spazio per altri dettagli che potrebbero distrarre l’attenzione. Il messaggio è più o meno questo: Bersani è un uomo serio, volenteroso, distinto ma alla mano, di lui ti puoi fidare, non ti racconterà balle.
Questa scelta comunicativa non aggiunge molto all’immagine che il segretario del Pd è andato costruendo di sé nel tempo. Mira solo a rinvigorirla e a popolarizzarla con maggiore decisione in un momento estremamente difficile per il partito democratico. Semmai prova a toglierle qualcosa: quella bonarietà emiliana che rischia di farne una caricatura involontaria, come capitò a Prodi.
A evocare il contesto (l’Italia di oggi) in cui si colloca tale figura provvedono gli slogan che compaiono alla sua sinistra. Qui, gli esperti di comunicazione del Pd hanno scelto di puntare sull’emotività, sulla reazione indignata: «La disoccupazione è aumentata. E la pazienza è finita.» Cifre, niente. Quanto è aumentata la disoccupazione? Il manifesto non ritiene necessario precisarlo. I pignoli controllino pure i dati Istat, il destinatario di questa comunicazione non ne ha bisogno, perché l’apocalisse è attorno a noi, è un’evidenza sotto gli occhi di tutti. Se la pazienza è finita, ci sarà un buon motivo, o no?
Idem per gli altri slogan. «Le tasse sono aumentate.» Quanto sono aumentate? Non è dato saperlo. «I soldi per l’istruzione sono diminuiti.» Qui la formula s’inverte – la diminuzione al posto dell’aumento –, ma l’omissione si conferma: le cifre, di nuovo, sono giudicate superflue.
In ogni caso, come si esce da tale catastrofe tanto evidente da non necessitare di specificazioni dettagliate? Lo spiega lo slogan sottostante, riportato in ogni manifesto: «Per giorni migliori, rimbocchiamoci le maniche.» Il messaggio è indirizzato, evidentemente, agli uomini di buona volontà, come lo stesso Bersani, a quelli che sono come lui, che si riconoscono nei suoi valori elementari: serietà e solidità caratteriale. A costoro i manifesti rivolgono un invito al solidarismo ecumenico. Ma cosa dovrebbero fare gli uomini di buona volontà dopo essersi rimboccati le maniche? Il manifesto non ritiene essenziale dire neppure questo. Intanto rimbocchiamoci le maniche, poi si vedrà. O, forse, rimbocchiamoci le maniche e ciascuno faccia quel che può. È un messaggio prepolitico, ispirato al modello dell’associazionismo cattolico, non a quello socialista: non delegare agli altri, non attendere la manna caduta dal cielo, datti da fare in prima persona.
Implicitamente, è anche una risposta ai tanti commentatori che, da tre anni e cioè da quando è nato il Pd, continuano a chiedere con insistenza ai suoi dirigenti: ma quali sono le vostre proposte? In che modo pensate di governare l’Italia? Quali riforme avete in mente?
È una risposta efficace? Per sedare la curiosità dei commentatori no, a meno di volerli prendere per noia. Per restituire fiducia agli elettori di centrosinistra, non so: decideranno loro. Quel che è certo è che c’è una fetta di elettorato con cui questi manifesti non intendono aprire il dialogo: i riformisti. Quelli che a un partito non chiedono di essere salvati dall’apocalisse ma solo, appunto, di fare le riforme. Ma, si sa, i riformisti sono una minoranza barbosa e ipercritica, che merita attenzione solo quando alza la voce in altre forze politiche.

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