domenica 9 agosto 2009

Fini: barra al centro

Gianfranco Fini ci ha dato già tante prove di indipendenza intellettuale e politica. Non sorprendono dunque le due dichiarazioni rilasciate ieri in Belgio: sull’immigrazione clandestina («Il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti») e sulla richiesta che il Parlamento si occupi della Ru 486, la pillola abortiva («Trovo originale pretendere che il Parlamento si debba pronunciare sull’efficacia di un farmaco. Ognuno ha le sue opinioni, anche io ho la mia, ma non è oggetto di dibattito politico. Poi ci sono le linee guida del governo, si è pronunciata l’Agenzia del farmaco, non vedo cosa c’entri il Parlamento»).

Sono dichiarazioni in sintonia con un’evoluzione di lunga data. La seconda è anche una onorevole manifestazione di laicismo. Il presidente della Camera non specifica infatti se è favorevole o contrario alla pillola, precisa di avere la sua opinione ma non dice quale, perché la ritiene cosa ininfluente. Questa materia «non è oggetto di dibattito politico». Chapeau.

Il senso di equilibrio che affiora dalle dichiarazioni finiane risalta ancor più dopo la conferenza stampa di due giorni fa di Berlusconi improntata a un populismo autoritario e di fronte alla sguaiata reazione di Bossi che alle osservazioni dell’ex leader di AN sull’immigrazione italiana ha replicato: «Noi andavamo a lavorare non ad ammazzare la gente». Una frase doppiamente deprecabile. Primo perché la contrapposizione lascia intendere che invece questi (gli immigrati in Italia) verrebbero apposta per delinquere. Secondo perché il senatúr nasconde una verità spiacevole: se soltanto leggesse un po’ o andasse al cinema saprebbe che noi siamo stati generosi esportatori del crimine negli States oltre che efficaci contrabbandieri nel Vecchio Continente. A meno che per Bossi quel «noi» non voglia dire noi italiani, bensì noi della mia provincia, del mio campanile, del mio condominio. L’uomo brilla per ristrettezza di vedute.

Ma, appunto, le polemiche del weekend innescate dalle affermazioni di Fini confermano un dato di fatto che spesso sfugge agli osservatori, soprattutto di sinistra: il centrodestra è tutt’altro che un fronte monolitico. Al suo interno, vi è anche una variegata area autenticamente riformista (rappresentata non solo da Fini), che sia pure in minoranza non esita a intervenire a difesa dei principi cardine della convivenza umana. Può darsi che sia vero quello che sostiene Tremonti, e cioè che l’Italia è un paese «sostanzialmente di destra». Ma c’è destra e destra. E ne abbiamo prova ogni giorno.

La domanda da porsi è piuttosto quanto sia vasta questa area riformista della destra italiana. In sostanza: qual è il consenso elettorale di Fini? Quanta forza possiede? In un futuro postberlusconiano (arrivi prima o dopo la scadenza naturale della legislatura), sarebbe in grado di tenere unito il PDL? Quanti ex colonnelli di AN e quanti fedeli servitori del Sultano sarebbero disposti a seguirlo? E che rapporti sarebbe in grado di intrattenere con l’attuale alleato di governo, la Lega?

Domande premature per un osservatore esterno (chi scrive queste note appartiene a un’altra tradizione, quella liberalsocialista), cui per ora non è possibile dare risposta. Ma è impensabile che il presidente della Camera non se le ponga. E ciò perché, comunque le si valuti, le sue non sono uscite estemporanee. Sono mosse che sottendono un disegno visionario, di prospettiva (come si diceva un tempo), che probabilmente va chiarendosi poco alla volta nella sua testa, un disegno non ancora compiutamente definito.

È lecito pure chiedersi, come è stato fatto (seriamente o no), se Fini sia ancora di destra o non sia diventato qualcosa d’altro. L’impressione è che il cammino intrapreso lo abbia fatto approdare su posizioni liberaldemocratiche più consone al centro, punto di convergenza di tutte le esperienze postideologiche. Al di là dei differenti accenti, nella sostanza infatti sono liberaldemocratici tanto Sarkozy quanto Zapatero o il New Labour, e in Italia tanto l’Udc quanto il PD.

Il rischio, per quanto riguarda il nostro Paese, è che ci sia un eccessivo affollamento in questo centro politico ma anche sociale. Destinatari elettivi del messaggio finiano sono difatti le fasce moderate dei ceti medi, le stesse a cui si indirizzano Casini e i tre candidati alla segreteria piddina. C’è quasi un’ossessione da parte degli interpreti più intelligenti dell’era postideologica a prendere le distanze dalle rispettive ali dello spettro politico (la destra-destra e la sinistra-sinistra) e, sul piano sociale, dai ceti popolari. Proprio l’elettorato in cui affondano le radici il berlusconismo e la Lega. E, chissà, forse il segreto del loro successo (deleterio per l’Italia) è proprio questo.

sabato 8 agosto 2009

Berlusconi e il caso Rai: l'assedio dell'assediato

Alla conferenza stampa di ieri a Palazzo Chigi sul consuntivo dei primi quattordici mesi di attività del governo, Silvio Berlusconi avrebbe potuto limitarsi a fare il suo one man show, come altre volte ha fatto nel salotto amico di Vespa. E scansare le domande dei giornalisti, rispondendo in modo vago senza perdere il controllo di sé (erano del resto domande prevedibili, che sicuramente il presidente del Consiglio si aspettava). Giuseppe D’Avanzo su “Repubblica” non gli avrebbe risparmiato il suo editoriale, perché molte delle cose pronunciate in conferenza stampa sono platealmente false: non c’è nessuna pace sociale, le contestazioni da parte delle vittime del terrorismo in Abruzzo sono quotidiane, il prestigio dell’Italia nel mondo non è mai stato così basso e nessuno a livello internazionale riconosce al nostro premier il ruolo decisivo che si arroga.

Ma tant’è. La propaganda avrebbe funzionato: il TG1 e gli house organ di famiglia avrebbero riferito i contenuti dello show dedicandogli ampio spazio e facendo ben attenzione a evitare ogni spirito critico. Come sempre. Invece il Cavaliere dimezzato dagli scandali come il visconte calviniano non ha resistito, e ha dato fondo a un’aggressività ancor più ingiustificata dopo le nomine RAI dei giorni scorsi e l’annuncio dei complementari balletti nelle proprietà di famiglia. La conseguenza è che si è messo da solo dietro il banco degli imputati, e la notizia del giorno è: Berlusconi attacca la libertà di stampa. Un formidabile regalo a un centrosinistra quanto mai sonnacchioso e distratto dalle sue stanche beghe interne. Un regalo che ha restituito un po’ di linfa persino a un ectoplasma come Franceschini, non ancora rassegnato a finire sotto naftalina, come meriterebbe per aver negato la sconfitta elettorale di giugno con una faccia tosta pari a quella del suo avversario.

Perché lo ha fatto? Perché un uomo come il Cavaliere sempre attento ai meccanismi della comunicazione è caduto in un errore apparentemente così dilettantesco? Certo, non è la prima volta che gli capita di aggredire, ed è pur vero che qualche volta l’aggressione paga, nel suo caso ha pagato. Ma non è questo il momento per mostrare i muscoli. Se vuole risalire la china (nonostante i finti sondaggi, Berlusconi sa bene che qualcosa si è rotto nel suo rapporto con l’opinione pubblica, sa bene che persino una cospicua fetta del mondo cattolico gli è contro), il Cavaliere deve essere anzitutto rassicurante, mostrare il volto buono, stendere una mano pacificatrice. Proprio quello che non è stato e non ha fatto ieri a Palazzo Chigi.

Dunque perché? Perché tanta aggressività? Effetto di un egocentrismo smisurato che non tollera dissensi, come lascia intendere D’Avanzo? Può darsi. È possibile anche che giochi un ruolo il nervosismo che attanaglia vistosamente il premier dall’affaire Noemi in poi: un premier incapace di togliersi dallo stato di assedio in cui lo ha ficcato la sua esuberanza sessuale, un premier per giunta lasciato solo dai collaboratori più vicini, nessuno dei quali è intervenutio in suo soccorso, fatta eccezione per i soliti yesmen che sapranno senz’altro confortare il suo poderoso narcisismo ma che gli sono poco utili alla bisogna. E, anzi, con le gaffe che scaturiscono sempre dall’eccessiva prodigalità servilistica hanno rischiato di causargli più danni che altro.

Ma, considerata l’astuzia comunicativa del Cavaliere (il quale, com’è arcinoto, non lascia nulla al caso), non si può escludere che quell’aggressione sia almeno in parte ispirata anche da una sorta di calcolo tattico. Per dirla in modo molto spiccio: Berlusconi attacca perché ha interesse a essere attaccato. Se infatti l’antiberlusconismo ha bisogno del Cavaliere per rimanere unito e sopravvivere, il Cavaliere ha un maledetto bisogno dell’antiberlusconismo per rimanere saldamente in sella al suo fronte, la cui unità fin dal 1994 è sempre stata messa a repentaglio da potenti fenomeni sismici.

È un’esigenza divenuta ancor più prioritaria dopo giugno, con una Lega scalpitante che giorno dopo giorno conquista sempre più la scena mediatica con le sue spettacolari baggianate che possono far ridere i lettori ingenui ma impensieriscono gli stranavigati alleati, che sanno intravedere dietro quelle uscite strumentali lo scopo reale: far cassa, incamerare i frutti del recente doppio successo elettorale, strappare quote di potere al partito di maggioranza. Per questo, Berlusconi ha bisogno di un centrosinistra che sia debole ma non così tanto debole. Ha bisogno che i «comunisti» facciano ancora paura («non voglio immaginare che cosa sarebbe successo se ci fossero stati loro al posto mio», ha detto non a caso in conferenza stampa). Ha bisogno insomma di una rinnovata forma di consociativismo che consenta a lui di mettere a tacere gli amici-nemici interni e al PD di fronteggiare le derive movimentiste della sinistra allo sbando. L’uomo, ancorché dimezzato, è diabolicamente astuto (non sarebbe arrivato dov’è, se non lo fosse). Meglio non dimenticarlo.

mercoledì 22 luglio 2009

Tiziano Scarpa: il mondo salvato dalle parole

La sedicenne Cecilia, protagonista di Stabat Mater di Tiziano Scarpa, è stata allevata nella musica. Abbandonata ancora in fasce dalla madre davanti all’Ospitale della Pietà di Venezia, ha appreso qui a suonare il violino, dimostrando un talento naturale che sarà prontamente colto dal suo nuovo istruttore, don Antonio Vivaldi: «Io sono sempre immersa nella musica» confida nelle lettere che scrive di notte all’ignota madre. «Nella mia mente la musica non smette mai di risuonare.»

Proprio sotto la guida del grande compositore Cecilia imparerà a sondare per mezzo della musica l’ignoto che alberga dentro di lei e a prendere familiarità con ciò che la trascende, la Natura: «Sono stata tutto questo, burrasca, tempesta, tuoni, lampi, ho pianto nel sentirmi diventare tanta furia, oltrepassando me stessa. Mi sono commossa di potermi trasformare in così tanto.»

Si capisce che l’esperienza estetico-taumaturgica sia ancor più dirompente per un’adolescente come lei assuefatta a vivere in un microcosmo soffocato tra le mura dell’orfanotrofio, senza la possibilità di alcun reale rapporto con l’ambiente urbano circostante che non sia quello fugace delle esibizioni nelle case della nobiltà veneziana, peraltro rigorosamente a volto coperto.

Eppure a Cecilia la musica non basta, la ragazza ha bisogno d’altro: ha bisogno delle parole. La simbologia è chiara: in mancanza di fogli bianchi, la giovane orfana raccatta quelli utilizzati per la copiatura delle parti delle strumentiste e delle cantanti, riempiendo di parole i righi, gli «interstizi», gli «spazi bianchi». La scrittura, insomma, come mezzo per colmare il vuoto lasciato dalla musica.

Ma perché a Cecilia il talento musicale non basta? Perché solo le parole sono in grado di aiutarla a fronteggiare l’angoscia («una bestia che conosco bene») e a «non soccombere» sotto il suo peso. Certo, la musica è in grado di farle fare «il giro del mondo e del tempo», la può trasformare in ciò che non è (farla diventare «la gentilezza e la furia»). In sintesi, può mitigare le pene della sua misera esistenza. Non ha però il potere di cambiarla. Non è in grado di liberare la ragazza dalle grate, dalle «barriere traforate», e di restituire la vita al suo giovane corpo anonimo cui è negata ogni epifania: la libertà di mostrarsi allo sguardo degli uomini.

«Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica» sentenzia in modo emblematico la narratrice. E, per quanto addolcita dalla presenza delle note, una bara rimane pur sempre un simbolo di morte. Ci vogliono le parole, ci vuole la scrittura per spezzare le sbarre della prigione e illuminare la notte dell’anima.

Bisogna porsi tuttavia un’altra domanda: qual è la causa dell’angoscia che opprime Cecilia al punto da indurla ad alzarsi di notte per scrivere di nascosto a costo di soffrire il freddo e di andare incontro a una sicura punizione nel caso venisse scoperta? L’abbandono, l’assenza, l’orfanità? Sì, certo, è tutto questo. Ma cosa significa? Cosa vuol dire per Cecilia essere orfana? La risposta la suggerisce lei stessa: «Io sono venuta al mondo dal vuoto… Questo mi è stato dato in sorte, essere figlia del niente.»

Ecco il motivo profondo del dramma, la ragione dell’angoscia. Nella coscienza della ragazza, l’orfanità (l’essere venuta al mondo dal vuoto) equivale a una negazione dell’essere: i figli del niente sono a loro volta niente, impossibilitati ad avere una storia, ad affermarsi nel mondo, a essere riconosciuti per i propri caratteri distintivi di unicità irripetibile.

Siamo lontani dal sentimentalismo acquoso di tanta narrativa romanticheggiante, consolatoria per definizione. Quella che Tiziano Scarpa propone in Stabat Mater nei modi di un racconto sapienziale (come direbbe Harold Bloom) è piuttosto una riflessione sulla condizione umana che lo avvicina ai grandi scrittori-filosofi della letteratura moderna e contemporanea.

La piccola Cecilia non è certo priva di emozioni, patisce senz’altro anche una carenza affettiva. Ma non è delle carezze o del semplice affetto materno che va anzitutto in cerca. È piuttosto un’origine quella che insegue. Perché solo laddove c’è un’origine, una volontà procreatrice, può sussistere una storia individuale. Un «mondo senza madri» è un mondo senza un prima, senza un destino, un passato che ci lega a ciò che ci trascende (ciò che non siamo noi) ma che proprio per questo ci offre una possibilità di individualizzazione, e cioè di differenziarci, di essere altro dagli altri.

Questo è il punto. E Cecilia lo dice molto bene a modo suo: «Loro [le suore dell’Ospitale della Pietà] mi hanno sfamato e vestito, mi hanno dato un’istruzione, mi hanno insegnato un mestiere, un’arte… Loro mi hanno donato qualcosa di più grande di una mamma, mi hanno dato il Signore Dio e la musica… Loro stanno facendo di me una persona e io preferisco essere una figlia.»

Preferisco essere una figlia. Il vocabolo, riproposto qui in posizione assoluta senza espansioni, va interpretato in senso pieno, forte. Vale la pena di ricordare che il latino “filiam” ha la stessa radice indoeuropea di foeminam e fecundam, il cui significato è “generare”, “nutrire”. Come dire: si può essere fecondi, nel senso letterale del termine e in quello traslato (fecondi dal punto di vista intellettuale, emotivo, artistico…), solo in quanto figli, solo in quanto venuti al mondo da un ventre a sua volta fecondo. La contrapposizione non potrebbe essere più radicale. Da una parte, c’è quel «ventre di morte» che è l’Ospitale, popolato di «donne sterili» (le suore) che «hanno scelto di tenere dentro la pancia la loro paura di morire». Dall’altra, c’è la volontà di Cecilia di essere figlia, e cioè (come direbbe Nietzsche) di diventare se stessa: donna fertile e autonoma.

Apparentemente, la sua volontà si esprime in un’insistenza ossessiva a porre l’accento sopra se stessa in contrasto con l’indifferenziazione cui sono condannate le ragazze, vestite tutte uguali: «Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli» [corsivo mio].

Siamo sul piano di un volontarismo tanto ostinato quanto infruttuoso che si spiega con l’impazienza adolescenziale di un personaggio che non tollera più la condizione di dipendenza in cui le è toccato in sorte di vivere e che ancora non intravede una diversa modalità di esistenza, più corrispondente ai suoi desideri.

Nondimeno è un altro lo strumento cui Cecilia ricorre per conquistare la propria individualità, uno strumento che si rivela ben più proficuo: il dialogo epistolare. La parola indirizzata a un lettore. Il verbo. Perché è indirizzandosi a qualcuno, e cioè riconoscendo i caratteri di alterità dell’interlocutore rispetto a noi, che a nostra volta affermiamo il nostro carattere di alterità rispetto all’ambiente che ci circonda.

Cecilia non aspira a ricongiungersi alla madre per fondersi nel suo ventre in un moto di romantica follia narcisistica, aspira a ricongiungersi a lei in quanto sua origine per differenziarsene, per accedere a una salutare età adulta. Certo, il suo tentativo di dialogo è destinato a rimanere muto. E di questo Cecilia è pienamente cosciente: «Signora Madre, io vi invoco ma voi non rispondete. Voi siete soltanto nella mia testa, io guardo i miei pensieri che escono dalla punta della penna, li getto fuori dalla mia testa senza mai riuscire a liberarmi di voi.»

Ma le lettere della ragazza non sono vergate invano, troveranno comunque un lettore, anzi una lettrice: suor Teresa. E avranno il loro effetto, imprevedibile persino alla stessa mittente: commuoveranno la suora inducendola non solo ad astenersi dal punire la ragazza ma addirittura a premiarla offrendole le poche informazioni di cui dispone sulla sua nascita e, in tal modo, a infrangere a sua volta le regole dell’Ospitale.

Scrittura e lettura affratellano le due donne nel segno della trasgressione, ricucendo quella frattura genetica cui abbiamo accennato sopra. Anche qui la simbologia è fondamentale. La trasgressione è qualcosa di necessario (non è il mero frutto di uno spirito ribellistico), è ciò che proietta un individuo «non ancora nato» (esistenzialmente non ancora nato) nel divenire: cioè nella Storia, nella società. Se la musica prolifera in un rapporto privilegiato con la Natura, la scrittura non può prescindere dal rapporto con la Storia (ogni parola la porta dentro di sé, nel proprio grembo, la storia: una peculiarità che note e suoni non posseggono e non possono possedere). Per questo, la prima unisce, la seconda separa, distingue.

Prima di conquistare l’indipendenza (la libertà di risalire al goethiano regno delle madri), Cecilia dovrà fare tuttavia una duplice esperienza della morte, questa volta fisica, non metaforica: prima assiste al trapasso di un uomo, quindi è indotta dal suo maestro (don Antonio) a sgozzare un agnello. Un atto, quest’ultimo, di inequivocabile valore rituale. Ma è solo la parola ormai acquisita che permette a Cecilia di immedesimarsi nell’oggetto sacrificale e, quindi, immedesimandosi, di riconoscersi distinta da esso (bisogna appunto essere altro per potersi immedesimare in qualcosa).

Naturalmente, Cecilia è figlia del nostro tempo (un personaggio postniciano, a dispetto dell’ambientazione settecentesca), e quella a cui accede è una libertà incerta, che peraltro la costringe a rinunciare alla consolazione della musica: una libertà ancora tutta da scrivere e raccontare. Ma è questa incertezza ad assicurarle per la prima volta la facoltà di scegliere e a consentirle di correre verso il proprio destino: «Sto facendo una cosa che non avevo mai provato in vita mia. Mi sono tappata le orecchie, fisso le stelle, con il viso all’insù. Non ascolto, non guardo. Non c’è più nessun soffitto sopra la mia testa. Nel registro ho sostituito il mio segnale con un’immagine della Madre di Dio. Non è tagliata né strappata. L’altra metà del segnale non esiste, perché non è un segnale di carta, sono io in carne e ossa, tutta intera, che mi sono riconosciuta in me stessa, sono io che adesso vado incontro al mio destino.»

Anche qui le parole sono importanti. Cecilia corre verso sud-est, nella direzione dove ritiene si trovi sua madre (che poi è anche il luogo dell’origine della parola dell’Occidente: la Grecia). Ma non dice: “vado incontro a mia madre.” Dice: «vado incontro al mio destino.»

mercoledì 24 giugno 2009

PD: interrogativi sul congresso e le primarie

Dunque. Se ho capito bene, al congresso si discute, ma il segretario lo si elegge dopo, per mezzo delle primarie (al cui voto, sempre se ho capito bene, sono ammessi tutti, iscritti e no).

Supponiamo che il congresso sia un vero congresso. E cioè un luogo in cui ci si confronta non dico su documenti, tesi e mozioni (abbiamo capito che al PD piace cambiare il nome alle cose), ma comunque su progetti, linee, programmi. Domanda: questi progetti, linee e programmi o come si chiameranno vengono messi ai voti al congresso?

1) Se sì, ci sarà una linea prevalente, approvata dai delegati che, immagino, saranno stati a loro volta votati dai congressi di sezione, dei comuni, delle regioni. In questo caso, i delegati indicherebbero con il loro voto che cosa dev’essere e deve fare il PD, però non chi deve esserne segretario.

Cosa curiosa. Perché a questo punto o le primarie sono una pura formalità propagandistica che ratifica le scelte del congresso scegliendo il candidato già vincente (come nel 2007) oppure sono primarie vere, libere di assicurare la maggioranza dei voti all’outsider che sostiene una linea diversa da quella uscita maggioritaria al congresso.

Nel primo caso ci si chiede perché dovremmo sprecare tempo con le primarie, nel secondo perché dovremmo sprecare tempo con il congresso.

2) Poniamo invece che al congresso si discuta soltanto, e non si pongano ai voti né tesi né mozioni né progetti né programmi né altro. In questo caso, il congresso sarebbe una vetrina in cui i candidati alle primarie espongono, chiariscono e divulgano la propria linea e idea del PD.

Ma allora mi domando: serve proprio fare il congresso? In questo caso, non sarebbe più conveniente svolgere solo le primarie ma autentiche, più o meno all’americana? E cioè spedire i candidati in giro per le regioni, con il loro bel documento in tasca, lasciare che si azzuffino per un ragionevole numero di mesi, che si trovino i finanziatori, si sbattano, ci raccontino quello che vogliono fare, ci convincano, e infine scegliere il sopravvissuto? (Perché queste sono le primarie: una battaglia in stile Highlander, che metta alla prova intelligenza e tempra dei candidati.)

PS. Non è quest’ultima l’ipotesi che preferisco. Sono un reazionario: potendo scegliere, sceglierei un congresso in bianco e nero, fatto di documenti, tesi e mozioni, senza primarie, senza eufemismi e senza retorica del nuovo o ingenui appelli alla democrazia diretta. Ma l’ipotesi delle primarie autentiche (made in USA) la preferirei senz’altro al pasticcio che per ora sembra profilarsi.

martedì 23 giugno 2009

Berlusconi, i moralisti e i castigamoralisti

SulRiformista” di ieri, Ubaldo Casotto ha pubblicato una Lettera aperta sul nuovo moralismo, in cui denuncia quella che ai suoi occhi appare come un’insanabile contraddizione.

La lettera è rivolta esplicitamente ai «colleghi scandalistici» e ai «lettori scandalizzati della sinistra progressista», e in sostanza dice: ma come, quando vi fa comodo ostentate un’etica anticlericale, difendete la liceità dei costumi, siete per la legalizzazione della prostituzione, consigliate a preti, suore e monaci di «emanciparsi... insomma scopare», e poi quando «trovate uno che (pare) attua tutto quello che ci avete predicato... voi che fate? Citate con faccia triste le preoccupazioni di qualche tonaca vescovile (le stesse che irridete negli altri 364 giorni dell’anno) e lo impiccate alla corda del vostro moralismo.» E conclude in modo colorito: «Ma andate a farvi fottere!»

Qui però c’è un gigantesco equivoco, che certo forse qualche collega contribuisce ad alimentare, ma equivoco rimane. Rispondo per parte mia (senza pretendere di voler interpretare il sentire altrui), perché mi sento chiamato in causa: sono progressista, continuo a dirmi di sinistra (liberale e socialista), suggerisco senz’altro di dedicare una parte ragionevole del tempo libero al sesso, considero la «castità» un peccato contro natura (sebbene non la sconsigli a chi la pratica), eccetera, eccetera, eccetera.

Nondimeno, io non mi sognerei mai di rimproverare a Berlusconi la sua licenziosità. Nell’alcova faccia quel che gli pare nei modi che giudica più opportuni. Chi se ne importa? Lo porto alla barra per altre colpe, che però la sua vicenda privata aggrava. E questo, checché ne pensi Casotto, mi sento autorizzato a farlo. Oh sì, se mi sento autorizzato.

1) La doppia morale. Berlusconi si comporti a suo piacimento, ma non pretenda di ergersi a paladino della famiglia e dell’etica. Intendiamoci. Questo non lo consento a nessun politico (di destra, di centro o di sinistra), ma men che meno lo riconosco a uno che predica bene e razzola male. Anzi, in questo caso, mi sento libero di dar sfogo alle mie pulsioni sadiche e di ridicolizzarlo.

2) L’allegria e la realtà. Berlusconi faccia pure il divorziato allegro. Scajola ha detto al Corriere che Silvio «è praticamente single da parecchi anni, e ha il diritto di gestire come ritiene la propria vita». Non so se sia una saggia linea di difesa. Ma anche questo non mi interessa. Più semplicemente io pretendo che Silvio non «gestisca» la nostra vita con la medesima «allegria» con cui gestisce la sua. Insomma, ci risparmi l’appello all’ottimismo, e affronti le questioni aperte: la crisi economica, la ricostruzione in Abruzzo, ecc. Gli appelli all’ottimismo sono sempre insopportabili, perché sono indice di un volontarismo inconcludente, ma risultano ancora più insopportabili da parte di una persona frivola e leggera, perché a me viene il sospetto che sia frivolo e leggero anche quando prende decisioni di interesse collettivo.

3) Le ricompense. Berlusconi si circondi delle persone che gli tornano utili (nel senso tecnico illustratoci da Ghedini e in quello consueto a noi comuni mortali). Ma eviti di ricompensarle con un posto in parlamento o in un’istituzione pubblica. Paolo Guzzanti è andato giù più duro. Ha parlato (testuale) di «mignottocrazia». Ha ragione. Il neologismo va inteso però in senso molto ampio, non può essere riferito solo a vallette ed escort. Devo fare nomi? Credo che non ce ne sia bisogno.

giovedì 18 giugno 2009

Chi gongola per le sventure di Berlusconi?

C’erano già tante buone ragioni politiche per essere scontenti del governo Berlusconi, e metterne in discussione la leadership: dalla sottovalutazione della crisi economica allo sfruttamento mediatico della tragedia abruzzese, dall’aggressione alle libertà individuali (il testamento biologico) alla legge sulle intercettazioni che intralcia la sicurezza in Italia...

In questi giorni, tali temi sono passati in secondo piano, oscurati dalle vicende private del premier e dal «salto di qualità» che il caso D’Addario potrebbe imprimere al «velina-gate» (sono espressioni di Antonio Polito). Ma ciò non vuol dire che quei temi siano irrilevanti. Al contrario, i reali motivi del crescente malumore di quei settori del fronte berlusconiano che sognano una destra alla Merkel o alla Sarkozy vanno rintracciati anzitutto in quei temi, oltre che in una molto più antica, radicata e preconcetta diffidenza verso il tycoon, con cui Fini & Co. sono scesi a patti con l’intento mai celato di servirsene finché fosse necessario per scaricarlo al momento opportuno.

Per dirla senza mezzi termini: l’idea di un cambio di leadership covava da tempo in tanti circoli, segmenti e fondazioni del centrodestra. Già nella precedente legislatura berlusconiana se ne erano ampiamente visti i segnali. Ma finora per il centrodestra quella di liberarsi di una figura scomoda come Berlusconi era una prospettiva remota: certo un’eventualità da preparare e in vista della quale lavorare, ma senza irrealistici balzi in avanti. La scadenza non era all’orizzonte, le condizioni per un passaggio di testimone non c’erano, l’opinione pubblica non era preparata.

Oggi, le cose potrebbero essere cambiate. Non solo perché l’immagine del Cavaliere, comunque ne venga fuori, appare danneggiata (almeno a livello istituzionale e internazionale: lo confermano gli imbarazzanti aneddoti riferiti da Chirac e dalla moglie di Blair, che la parziale positività dell’incontro con Obama non può cancellare). Ma soprattutto perché la vittoria del PDL alle recenti elezioni amministrative, unita alla sconfitta personale di Berlusconi alle europee, potrebbe legittimamente indurre qualcuno a pensare che i tempi per una svolta sono maturi. Esiste una parte del centrodestra che da tempo si sente ormai adulta e ritiene di non aver più bisogno di un padre-sovrano per rimanere unita e vincere. Tanto più che si trova di fronte un centrosinistra indebolito e acefalo (o, se si preferisce, disorientato da troppi cefali: il risultato non cambia), che difficilmente potrebbe avvantaggiarsi da un’uscita di scena del Cavaliere.

Né è utile fare gli ingenui. Luigi Crespi ha perfettamente ragione a ricordare che «i complotti hanno accompagnato la storia del nostro Paese». Questo non sarebbe né il primo né l’ultimo. Noi non abbiamo in mano le informazioni che ha lui, non sappiamo se dietro alla fuga di notizie (o brandelli di notizie) riguardo alla vivace vita privata del Cavaliere ci sia o no una «regia». Quel che è certo è che più che la sinistra, alle prese con i suoi logoranti problemi interni, a gongolare delle sventure e degli errori di Berlusconi è una parte del suo stesso entourage (non solo i finiani).

Non a caso i colonnelli del PDL se ne stanno alla finestra a guardare: non intervengono né per garantire la loro solidarietà al capo né per smarcarsene. Lasciano ai comunicati stampa e all’avvocato Ghedini l’incombenza di difenderlo (peraltro male, molto male: la metafora dell’«utilizzatore finale» è quanto meno infelice). Solo Bossi si è speso per l’amico di Arcore. Lo ha fatto probabilmente per sincera amicizia (le cene del lunedì sono una consuetudine esclusiva, mai allargata agli altri leader del centrodestra) e per riconoscenza (la Lega sarebbe una forza isolata e impotente senza Berlusconi). Ma di sicuro lo ha fatto anche per calcolo politico. Il senatúr sa infatti che non è detto che i “golpisti” avranno la meglio. E gli conviene rischiare un po’, per chiedere poi il conto e mettere a frutto il recente successo elettorale (a cominciare per esempio da qualche poltrona in RAI).

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