mercoledì 22 luglio 2009

Tiziano Scarpa: il mondo salvato dalle parole

La sedicenne Cecilia, protagonista di Stabat Mater di Tiziano Scarpa, è stata allevata nella musica. Abbandonata ancora in fasce dalla madre davanti all’Ospitale della Pietà di Venezia, ha appreso qui a suonare il violino, dimostrando un talento naturale che sarà prontamente colto dal suo nuovo istruttore, don Antonio Vivaldi: «Io sono sempre immersa nella musica» confida nelle lettere che scrive di notte all’ignota madre. «Nella mia mente la musica non smette mai di risuonare.»

Proprio sotto la guida del grande compositore Cecilia imparerà a sondare per mezzo della musica l’ignoto che alberga dentro di lei e a prendere familiarità con ciò che la trascende, la Natura: «Sono stata tutto questo, burrasca, tempesta, tuoni, lampi, ho pianto nel sentirmi diventare tanta furia, oltrepassando me stessa. Mi sono commossa di potermi trasformare in così tanto.»

Si capisce che l’esperienza estetico-taumaturgica sia ancor più dirompente per un’adolescente come lei assuefatta a vivere in un microcosmo soffocato tra le mura dell’orfanotrofio, senza la possibilità di alcun reale rapporto con l’ambiente urbano circostante che non sia quello fugace delle esibizioni nelle case della nobiltà veneziana, peraltro rigorosamente a volto coperto.

Eppure a Cecilia la musica non basta, la ragazza ha bisogno d’altro: ha bisogno delle parole. La simbologia è chiara: in mancanza di fogli bianchi, la giovane orfana raccatta quelli utilizzati per la copiatura delle parti delle strumentiste e delle cantanti, riempiendo di parole i righi, gli «interstizi», gli «spazi bianchi». La scrittura, insomma, come mezzo per colmare il vuoto lasciato dalla musica.

Ma perché a Cecilia il talento musicale non basta? Perché solo le parole sono in grado di aiutarla a fronteggiare l’angoscia («una bestia che conosco bene») e a «non soccombere» sotto il suo peso. Certo, la musica è in grado di farle fare «il giro del mondo e del tempo», la può trasformare in ciò che non è (farla diventare «la gentilezza e la furia»). In sintesi, può mitigare le pene della sua misera esistenza. Non ha però il potere di cambiarla. Non è in grado di liberare la ragazza dalle grate, dalle «barriere traforate», e di restituire la vita al suo giovane corpo anonimo cui è negata ogni epifania: la libertà di mostrarsi allo sguardo degli uomini.

«Noi siamo sepolte vive in una delicata bara di musica» sentenzia in modo emblematico la narratrice. E, per quanto addolcita dalla presenza delle note, una bara rimane pur sempre un simbolo di morte. Ci vogliono le parole, ci vuole la scrittura per spezzare le sbarre della prigione e illuminare la notte dell’anima.

Bisogna porsi tuttavia un’altra domanda: qual è la causa dell’angoscia che opprime Cecilia al punto da indurla ad alzarsi di notte per scrivere di nascosto a costo di soffrire il freddo e di andare incontro a una sicura punizione nel caso venisse scoperta? L’abbandono, l’assenza, l’orfanità? Sì, certo, è tutto questo. Ma cosa significa? Cosa vuol dire per Cecilia essere orfana? La risposta la suggerisce lei stessa: «Io sono venuta al mondo dal vuoto… Questo mi è stato dato in sorte, essere figlia del niente.»

Ecco il motivo profondo del dramma, la ragione dell’angoscia. Nella coscienza della ragazza, l’orfanità (l’essere venuta al mondo dal vuoto) equivale a una negazione dell’essere: i figli del niente sono a loro volta niente, impossibilitati ad avere una storia, ad affermarsi nel mondo, a essere riconosciuti per i propri caratteri distintivi di unicità irripetibile.

Siamo lontani dal sentimentalismo acquoso di tanta narrativa romanticheggiante, consolatoria per definizione. Quella che Tiziano Scarpa propone in Stabat Mater nei modi di un racconto sapienziale (come direbbe Harold Bloom) è piuttosto una riflessione sulla condizione umana che lo avvicina ai grandi scrittori-filosofi della letteratura moderna e contemporanea.

La piccola Cecilia non è certo priva di emozioni, patisce senz’altro anche una carenza affettiva. Ma non è delle carezze o del semplice affetto materno che va anzitutto in cerca. È piuttosto un’origine quella che insegue. Perché solo laddove c’è un’origine, una volontà procreatrice, può sussistere una storia individuale. Un «mondo senza madri» è un mondo senza un prima, senza un destino, un passato che ci lega a ciò che ci trascende (ciò che non siamo noi) ma che proprio per questo ci offre una possibilità di individualizzazione, e cioè di differenziarci, di essere altro dagli altri.

Questo è il punto. E Cecilia lo dice molto bene a modo suo: «Loro [le suore dell’Ospitale della Pietà] mi hanno sfamato e vestito, mi hanno dato un’istruzione, mi hanno insegnato un mestiere, un’arte… Loro mi hanno donato qualcosa di più grande di una mamma, mi hanno dato il Signore Dio e la musica… Loro stanno facendo di me una persona e io preferisco essere una figlia.»

Preferisco essere una figlia. Il vocabolo, riproposto qui in posizione assoluta senza espansioni, va interpretato in senso pieno, forte. Vale la pena di ricordare che il latino “filiam” ha la stessa radice indoeuropea di foeminam e fecundam, il cui significato è “generare”, “nutrire”. Come dire: si può essere fecondi, nel senso letterale del termine e in quello traslato (fecondi dal punto di vista intellettuale, emotivo, artistico…), solo in quanto figli, solo in quanto venuti al mondo da un ventre a sua volta fecondo. La contrapposizione non potrebbe essere più radicale. Da una parte, c’è quel «ventre di morte» che è l’Ospitale, popolato di «donne sterili» (le suore) che «hanno scelto di tenere dentro la pancia la loro paura di morire». Dall’altra, c’è la volontà di Cecilia di essere figlia, e cioè (come direbbe Nietzsche) di diventare se stessa: donna fertile e autonoma.

Apparentemente, la sua volontà si esprime in un’insistenza ossessiva a porre l’accento sopra se stessa in contrasto con l’indifferenziazione cui sono condannate le ragazze, vestite tutte uguali: «Io non sono questo sfacelo, io ce la posso ancora fare, io sono forte, io non voglio lasciarmi sciogliere dentro questo veleno nero, io non sono tutta questa morte che vedo, io non voglio inghiottire questo mare, io non lascerò che tutto questo buio entri dentro di me e mi cancelli» [corsivo mio].

Siamo sul piano di un volontarismo tanto ostinato quanto infruttuoso che si spiega con l’impazienza adolescenziale di un personaggio che non tollera più la condizione di dipendenza in cui le è toccato in sorte di vivere e che ancora non intravede una diversa modalità di esistenza, più corrispondente ai suoi desideri.

Nondimeno è un altro lo strumento cui Cecilia ricorre per conquistare la propria individualità, uno strumento che si rivela ben più proficuo: il dialogo epistolare. La parola indirizzata a un lettore. Il verbo. Perché è indirizzandosi a qualcuno, e cioè riconoscendo i caratteri di alterità dell’interlocutore rispetto a noi, che a nostra volta affermiamo il nostro carattere di alterità rispetto all’ambiente che ci circonda.

Cecilia non aspira a ricongiungersi alla madre per fondersi nel suo ventre in un moto di romantica follia narcisistica, aspira a ricongiungersi a lei in quanto sua origine per differenziarsene, per accedere a una salutare età adulta. Certo, il suo tentativo di dialogo è destinato a rimanere muto. E di questo Cecilia è pienamente cosciente: «Signora Madre, io vi invoco ma voi non rispondete. Voi siete soltanto nella mia testa, io guardo i miei pensieri che escono dalla punta della penna, li getto fuori dalla mia testa senza mai riuscire a liberarmi di voi.»

Ma le lettere della ragazza non sono vergate invano, troveranno comunque un lettore, anzi una lettrice: suor Teresa. E avranno il loro effetto, imprevedibile persino alla stessa mittente: commuoveranno la suora inducendola non solo ad astenersi dal punire la ragazza ma addirittura a premiarla offrendole le poche informazioni di cui dispone sulla sua nascita e, in tal modo, a infrangere a sua volta le regole dell’Ospitale.

Scrittura e lettura affratellano le due donne nel segno della trasgressione, ricucendo quella frattura genetica cui abbiamo accennato sopra. Anche qui la simbologia è fondamentale. La trasgressione è qualcosa di necessario (non è il mero frutto di uno spirito ribellistico), è ciò che proietta un individuo «non ancora nato» (esistenzialmente non ancora nato) nel divenire: cioè nella Storia, nella società. Se la musica prolifera in un rapporto privilegiato con la Natura, la scrittura non può prescindere dal rapporto con la Storia (ogni parola la porta dentro di sé, nel proprio grembo, la storia: una peculiarità che note e suoni non posseggono e non possono possedere). Per questo, la prima unisce, la seconda separa, distingue.

Prima di conquistare l’indipendenza (la libertà di risalire al goethiano regno delle madri), Cecilia dovrà fare tuttavia una duplice esperienza della morte, questa volta fisica, non metaforica: prima assiste al trapasso di un uomo, quindi è indotta dal suo maestro (don Antonio) a sgozzare un agnello. Un atto, quest’ultimo, di inequivocabile valore rituale. Ma è solo la parola ormai acquisita che permette a Cecilia di immedesimarsi nell’oggetto sacrificale e, quindi, immedesimandosi, di riconoscersi distinta da esso (bisogna appunto essere altro per potersi immedesimare in qualcosa).

Naturalmente, Cecilia è figlia del nostro tempo (un personaggio postniciano, a dispetto dell’ambientazione settecentesca), e quella a cui accede è una libertà incerta, che peraltro la costringe a rinunciare alla consolazione della musica: una libertà ancora tutta da scrivere e raccontare. Ma è questa incertezza ad assicurarle per la prima volta la facoltà di scegliere e a consentirle di correre verso il proprio destino: «Sto facendo una cosa che non avevo mai provato in vita mia. Mi sono tappata le orecchie, fisso le stelle, con il viso all’insù. Non ascolto, non guardo. Non c’è più nessun soffitto sopra la mia testa. Nel registro ho sostituito il mio segnale con un’immagine della Madre di Dio. Non è tagliata né strappata. L’altra metà del segnale non esiste, perché non è un segnale di carta, sono io in carne e ossa, tutta intera, che mi sono riconosciuta in me stessa, sono io che adesso vado incontro al mio destino.»

Anche qui le parole sono importanti. Cecilia corre verso sud-est, nella direzione dove ritiene si trovi sua madre (che poi è anche il luogo dell’origine della parola dell’Occidente: la Grecia). Ma non dice: “vado incontro a mia madre.” Dice: «vado incontro al mio destino.»

1 commento:

Anonimo ha detto...

Chiunque fosse interessato ad avere maggiori informazioni sul fondo musicale contenente i manoscritti con le musiche scritte per le “putte” dell’Ospedale della Pietà di Venezia può cliccare al seguente indirizzo:
http://fondocorrer.wordpress.com/
cordiali saluti

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