domenica 16 marzo 2008

Pardon. Riflessioni e passaggi da "Perdonare" di Jacques Derrida

di Susanna Janina Baumgartner

Pardon. Dono e perdono hanno un rapporto essenziale con il tempo. Per perdonare, deve esserci un passato che non passa e che io decido di far passare con un dono: prima di tutto a me stesso e poi all’altro. Per dono. Tempo donato e tempo da donare.

Si è sempre colpevoli, si ha sempre da farsi perdonare quando si tratta del dono e del “per dono”, che può diventare appello alla riconoscenza, un veleno, un’arma, un’affermazione di sovranità. Si prende sempre donando. Sono questi gli abissi che ci attendono e che ci minacceranno sempre.

Chi perdona? Chi domanda perdono a chi? Chi ne ha il diritto e il potere? Si perdona qualcuno o si perdona qualcosa a qualcuno? Il perdono è possibile solo alla condizione che sia domandato? Il perdono può essere accordato solo se il colpevole si mortifica, si confessa, si pente?

Vi è nel senso stesso del perdono una forza, un desiderio, uno slancio che esige che il perdono sia accordato, se può esserlo, perfino a qualcuno che non lo domanda, che non si pente. Il perdono prende senso (se almeno deve mantenere un senso, cosa che non è sicura), trova la sua possibilità di perdono solo laddove esso è chiamato a fare l’im-possibile e a perdonare l’imperdonabile.

Il perdono, se ce n’è, deve e può perdonare solo l’imperdonabile, l’inespiabile e quindi fare l’impossibile. Perdonare il perdonabile non è perdonare. L’analisi del “perdono”, di “perdono” è interminabile. Il perdono non dovrebbe essere permesso che dalla parte della stessa vittima. La questione, in quanto tale, del perdono dovrebbe sorgere solo nel faccia a faccia tra la vittima e il colpevole.

Bisogna, però, anche considerare se l’idea del perdono non debba liberarsi del suo correlato di espiazione. Un perdono possibile solo in relazione all’im-possibile. Un perdono al di là della parola richiesta, forse, dal perdono. Fare del silenzio l’elemento stesso del perdono, se ce n’è?

Certi animali fanno la guerra e fanno la pace. Non tutti, non sempre, come fra gli uomini. Non si può negare questa possibilità, addirittura questa necessità, del perdono extra- verbale, se non addirittura an-umano. Ogni colpa, ogni male è anzitutto uno spergiuro: ossia il mancare a una certa promessa, a un certo impegno, a una certa responsabilità.

Per essere giusto, in vista di essere giusto, devo domandare perdono, perchè per essere giusto, io sono ingiusto e tradisco. Tradisco sempre qualcuno per essere giusto, perchè è ingiusto essere giusto. Rischio sempre di tradire qualcun’altro perdonando, poiché si è votati a perdonare sempre nel nome di un altro.

Perdono! Perdonatemi di aver preso il vostro tempo così a lungo. Grazie. In fondo, voi non saprete mai quello che io vi dico quando vi dico, per concludere, perdono e grazie. Al principio ci sarà stata la parola “perdono”, “grazie”. Pardon

venerdì 7 marzo 2008

La vendetta senza destino

Sweeney Todd di Tim Burton è un film deludente, viziato da una caratterizzazione troppo macchiettistica dei personaggi, dalla banalità delle musiche, dal manierismo delle scene (quanto fumo in questa Londra digitale!). Ma è il tema che mi interessa: la vendetta. Dopo un periodo trascorso in carcere per un omicidio non commesso, Benjamin Barker torna nella capitale intenzionato a uccidere il giudice Turpin che lo ha condannato, rapendogli moglie e figlia. E, nell’attesa della resa dei conti, si esercita tagliando le gole dei clienti nella bottega da barbiere che ha aperto in Fleet Street.

A emergere sono due fondamentali elementi narrativi. Da una parte, la lunga attesa che fa dell’ansia di vendetta una vera e propria idea fissa, che rode il protagonista e ne assorbe le energie, trasformandosi nello scopo della sua esistenza. Dall’altra, il mondo capovolto che pone un criminale impunito (il giudice Turpin) nel ruolo di amministratore della giustizia.

Entrambi sono veri e propri archetipi del moderno immaginario collettivo, che trovano probabilmente la loro prima grande espressione letteraria in quel capolavoro della narrativa d’avventure che è il Conte di Montecristo. È in questo romanzo, infatti, che per la prima volta il concetto di vendetta si “imborghesisce”, assumendo il carattere di resa dei conti individuale per il torto subìto.

Ma le origini della vendetta affondano nell’età premoderna e preborghese, che non possiede il concetto di individualità e vive, anzi, ogni aspetto dell’esistenza come destino collettivo. La vendetta, in questa diversa metafisica, è un atto dovuto verso gli dèi e la società, al quale l’uomo di nobil animo non può sottrarsi. Perché il singolo è chiamato a contribuire in prima persona alla difesa della giustizia nella collettività della quale fa parte (una concezione che si conserva nella Costituzione americana).

Di questa metafisica si alimenta l’ira che Achille sfoga facendo scempio del corpo di Ettore per vendicare la morte dell’amico Patroclo. E di essa si alimentano anche gli innumerevoli episodi di violenza della Bibbia, della tragedia, del poema cavalleresco. La vendetta, per mezzo di questa metafisica, diventa allora lo strumento che lega l’uomo all’altro uomo, il fratello al fratello, i figli ai padri, una generazione a un’altra generazioni, la Terra al Cielo.

Probabilmente, è nell’Amleto che per la prima volta s’infrange quel rapporto armonico tra Io e Destino che aveva permesso di identificare senz’altro vendetta e giustizia. Agli esordi della modernità, gli dèi hanno già smesso di dialogare con gli uomini. Sono gli spettri ad averne preso il posto. E, proprio perché intenzionato a rispettare la giustizia, il principe di Danimarca – definitivamente solo a districarsi fra i tormenti della propria coscienza – non sa più se prestar fede o meno alle parole del padre morto. Si può obbedire ciecamente alla voce del Cielo, non a quella che proviene dal sottosuolo.

giovedì 28 febbraio 2008

L’immagine uccide l’immaginazione

di Susanna Janina Baumgartner

L’immaginazione, come scrive Michel Foucault, nella sua vera e propria funzione poetica medita sull’identità. E, se è vero che essa circola in un universo di immagini, è comunque per essenza iconoclastica, quindi libera. Dove vi è immagine, non può esservi libertà, perché avere un’immagine è rinunciare a immaginare.

L’immagine è uno stratagemma della coscienza per non immaginare più; è il momento di scoraggiamento durante il duro lavoro dell’immaginazione. Per essere autentica, l’immaginazione deve imparare nuovamente a sognare; dato che il sogno non è una modalità dell’immaginazione, ne è la condizione prima di possibilità. Il vero poeta non si concede al desiderio soddisfatto dell’immagine, perché la libertà dell’immaginazione gli si impone come un compito di rifiuto.

«L’arte poetica» ha senso solo se insegna a spezzare l’incanto delle immagini, liberando il cammino dell’immaginazione verso il sogno che le offre come verità assoluta il suo «invulnerabile cuore di notte». Ma dall’altro lato del sogno l’attività dell’immaginazione continua; riprende nel lavoro dell’espressione che conferisce un nuovo senso alla verità e alla libertà: «il poeta può allora scorgere i contrari – puntuali morgane tumultuose – congiungersi e la loro immanente discendenza personificarsi, poesia e verità, come sappiamo, essendo sinonimi» (René Char, Spartizione formale).

L’immagine allora può offrirsi nuovamente, non più come rinuncia all’immaginazione, ma come sua realizzazione al contrario, purificata dal sogno. L’immagine così intesa non è più immagine di qualche cosa, ma è raccolta in se stessa, si dà come la pienezza di un «esserci». Non indica più qualcosa, ma si rivolge a qualcuno.

«Spetta senza dubbio a quest’uomo, da capo a piedi alle prese col Male di cui conosce il volto vorace e midollare, trasformare in fatto storico il fatto favoloso. La nostra inquieta convinzione non deve denigrarlo ma interrogarlo, noi ferventi uccisori di esseri reali nella persona successiva della nostra chimera… L’evasione in altrui, con prospettive immense di poesia, forse sarà possibile un giorno» (René Char, Spartizione formale).

giovedì 21 febbraio 2008

Wozzeck: la disperazione di essere liberi

Al Capitano che gli rimprovera di non avere «moralità» perché ha «un bambino senza la benedizione della Chiesa», il soldato Franz Wozzeck risponde in questo modo: «Dev’essere una bella cosa la virtù, signor Capitano. Ma io sono un povero diavolo! Noi siamo infelici sia in questo che nell’altro mondo! Se andassimo in paradiso, saremmo costretti a dare una mano per far tuonare!»

Come noto, il Wozzeck di Alban Berg – uno dei capolavori della musica contemporanea, riproposto alla Scala in un’interpretazione che si segnala per la rigorosa direzione di Daniele Gatti e la superba regia di Jürgen Flimm – è un’opera dalla gestazione quanto mai tormentata, come l’incompiuto dramma teatrale di Georg Büchner a cui si ispira (intitolato in realtà Woyzeck). Ma è anche un’opera di estrema complessità filosofica.

La vicenda sembra avviarsi sugli schemi del dramma sociale ottocentesco: i versi riportati sottintendono che è necessario promuovere un certo grado di benessere economico perché l’uomo possa essere «una persona morale». Ma a correggere l’impressione iniziale interviene subito una tensione visionaria e addirittura allucinata, messa ben in risalto dalle scene di Erich Wonder.

(Susanna mi ha fatto notare le molte suggestioni artistiche che esse riecheggiano, in maniera più o meno voluta: la struttura centrale, color ruggine, ricorda certi lavori di Richard Serra le cui lastre in ferro, installate in piazze e vie, richiamano l’attenzione sull’oppressività dell’ambiente urbano; lo spazio retrostante fa tornare alla memoria l’occhio di Magritte che al suo interno ha il mondo o, meglio, il cielo, per cui ciò che è fuori è dentro e ciò che è dentro è fuori; e la scena in cui Maria si inginocchia con in mano una candela ricorda una delle Maddalene di Georges De La Tour).

«C’è stata un’apparizione in cielo, e tutto era di fuoco! Sto per scoprire molte cose!» dice Wozzeck, e pare la promessa di un ritrovato dialogo fra umanità e Cosmo. Invece, per ironia della sorte, quello che scoprirà è che la prima a dimostrarsi sprovvista di virtù è proprio la madre di suo figlio, l’ex prostituta Maria (il nome non è casuale), che lo tradisce con un Tamburmaggiore.

La violenza della passione che trasforma Wozzeck in un assassino e la violenza metafisica che ne fa, suo malgrado, un precursore del titanismo nichilista, si fondono nella follia del protagonista. Accecato dall’ansia catalogatoria propria del più fanatico scientismo, il Dottore ha la diagnosi pronta: «Wozzeck, lei ha una bella aberratio mentalis partialis.» Ma le origini della sua follia, in realtà, non sono psichiche, sono mistiche.

È la follia di chi ha alzato gli occhi al cielo per interrogarlo e, con angosciante stupore, lo ha trovato vuoto. La Provvidenza, invocata di continuo, rimane leopardianamente sorda in questo dramma: «Ora tutto è buio, buio», «Silenzio, tutto è silenzio.» Nessuna voce interviene biblicamente a fermare la mano del povero soldato mentre affonda il coltello nel collo della donna amata.

Il dialogo con il Cosmo è infranto definitivamente. Il Dottore può rallegrarsene, perché nella sua visione del mondo, la natura è solo «orribile superstizione» («Non ho dimostrato forse che il diaframma è sottoposto alla volontà?») e della superstizione occorre liberarsi perché affiori quella che ai suoi occhi è la verità: «L’uomo è libero!»

Ma, agli occhi di Büchner e di Berg, una libertà che smarrisce il senso del destino comune non fa che spezzare i rapporti sociali spalancando le porte alla volontà di potenza (i manipolatori esperimenti pseudopsichiatrici del Dottore) e alla disperazione («l’essere umano è un abisso, vengono le vertigini a guardarvi dentro»). Nessuna speranza è concepibile in questo crudissimo affresco. Lo conferma l’ultima, allucinata scena.

Quando un bambino gli comunicherà che sua madre è morta, il figlio di Maria continuerà a giocare a cavalluccio ripetendo monotamente: «Hopp, hopp! Hopp, hopp! Hopp, hopp!»


Wozzeck
di Alban Berg

Direttore Daniele Gatti ● Regia Jürgen Flimm ● Scene Erich Wonder ● Costumi Florence von Gerkan ● Coreografia Catharina Luhr

Personaggi e interpreti: Wozzeck Georg Nigl / Thomas Johannes Mayer ● Tamburmajor Endrik Wottrich ● Andres Marlin Miller ● Hauptmann Wolfgang Ablinger-Sperrhacke ● Doktor Markus Marquardt ● Der Narr Heinz Zednik ● Marie Evelyn Herlitzius ● Margret Ute Döring

venerdì 15 febbraio 2008

Facci essere umani

di Susanna Janina Baumgartner

Ho letto di recente un libro di Davide Sparti (docente di sociologia dei processi culturali ed epistemologia delle scienze sociali a Siena), intitolato L’importanza di essere umani (Feltrinelli), che mi ha profondamente colpito. L’argomento trattato è il ri-conoscimento dell’altro che comporta di conseguenza un’etica del riconoscimento. E richiama alla memoria una frase di Ludwig Wittgenstein, che sottoscrivo senza esitazioni: «Facci essere umani» (Aus dem Nachlass).

Ri-conoscere l’altro è essere sensibili e responsivi nei suoi confronti. Significa considerare l’altro considerando se stessi. Dare valore all’altro e recepire sapendosi disporre all’ascolto. Significa anche saper dare una giusta risposta. Lo stare di fronte dell’altro implica la responsabilità di dare una risposta all’altro. Proprio perché mi guarda l’altro mi riguarda.

Sottrarsi all’incontro con l’altro è timore di compromettersi e anche tentazione di alleggerirsi dalla responsabilità di rendersi noto agli altri. Eludere e ripudiare il carattere pubblico e soffocante del linguaggio ordinario, come se la condivisione implicasse la negazione della nostra distinzione individuale, del suo particolare rilievo. Io mi riconosco in questo timore come in questa tentazione che alle estreme conseguenze ti pone da spettatore davanti agli altri. Quindi, nella condizione di vedere senza essere visti, come a teatro. Il teatro appaga il nostro bisogno di occultamento e ci allevia da ogni responsabilità, sollevandoci dall’ansia e dal peso di affrontare direttamente l’altro.

Quando nella vita ci tratteniamo nel ruolo dell’osservatore, allora teatralizziamo l’esistenza e trasformiamo l’altro, ma anche noi stessi, in una specie di personaggio. L’altro fa parte di un mondo rispetto al quale restiamo non toccati, spesso indifferenti, cosicché la sua e la nostra dignità umana viene lesa e umiliata. Quando non ci sveliamo, teatralizzando, tale esistenza fittizia assume i contorni di una condanna per l’altro e di una vendetta per noi. Per quella mancanza di fiducia nell’altro che si trasforma in rabbia e poi in indifferenza.

Quando ci tratteniamo nell’oscurità e ci isoliamo, trasformiamo l’altro in un personaggio. Per attribuire umanità all’altro abbiamo bisogno del criterio della somiglianza. Vediamo una figura, una persona – dice Wittgenstein – non secondo un’interpretazione, ma secondo un interpretare. Dunque ogni vedere è carico di teoria. Il considerare qualcuno persona e non personaggio, dipende dall’atteggiamento adottato nei suoi riguardi. Dipende dal rispetto di cui siamo capaci.

Se tra me e l’altro c’è allontanamento, una distanza tale da farmelo definire uno fra altri, senza più distinguere lui dagli altri, non c’è più riconoscimento e quindi non è più possibile che vi sia umanità. Un non riconoscere l’altro non dà modo all’identità di essere quello che è: una continua metamorfosi nell’incontro con l’altro. Sorge la paura di non essere, se l’altro ci coglie impreparati.

Nella diversità dell’altro non ci riconosciamo, non sappiamo riconoscerci e allora ci rifugiamo nelle «certezze» del passato, senza saper trarre vera forza dal passato. Della nostra storia vogliamo vedere solo quello che ci può «salvare». Una storia su misura per noi. Una storia di pensieri distorti che diventano guscio protettivo in un labirinto mentale senza via d’uscita. Una «corazza» per proteggerci dal mondo e anche da noi stessi.

sabato 9 febbraio 2008

Elezioni: italiani, ancora uno sforzo,
se volete essere moderni

La politica in Italia torna a farsi interessante. Le indiscrezioni dei giorni scorsi avevano lasciato intendere che il Cavaliere si preparava a una contromossa che, anche a destra, avrebbe modificato l’offerta elettorale. Ora, finalmente, abbiamo la notizia: FI e AN si presenteranno agli elettori con un’unica lista, rinunciando ai propri simboli e impegnandosi a dar vita a un solo gruppo parlamentare.

Certo, si tratta di una fusione a freddo, compiuta in modo verticistico e con molte contraddizioni. Ma non la liquiderei come un’operazione di «maquillage», priva di sostanza. Anche da sinistra (è questo il fronte in cui mi colloco), la decisione presa da Berlusconi e da Fini va osservata con interesse, se non altro perché i due leader si sono spinti troppo avanti per potersi rimangiare la parola a urne chiuse.

D’altra parte, l’accordo raggiunto argina, per ovvie ragioni numeriche, l’influenza tellurica della Lega, e di fatto isola l’UDC, anche qualora il partito di Casini riuscisse a siglare un’improbabile intesa dell’ultima ora. Insomma, la strada verso una semplificazione del sistema politico sembra ormai imboccata in maniera irreversibile. E di questo non possiamo che rallegrarci. Perché è impossibile affrontare le sfide di uno scenario internazionale sempre più complesso se prima non viene garantita la governabilità, e cioè la formazione di un esecutivo coerente e abbastanza omogeneo.

Piuttosto è da osservare che rimangono aperti alcuni inquietanti interrogativi.

1) Anzitutto, dalle elezioni del 13 e 14 aprile uscirà la medesima maggioranza al Senato e alla Camera o avremo due vincenti? Nel primo caso, la maggioranza avrà un numero di seggi sufficiente per guidare il Paese con una certa serenità? Nel secondo caso, è verosimile una soluzione alla tedesca che dia vita a un governo trasversale non troppo allargato? Difficile dirlo. Se l’asse del centrosinistra si è spostato un po’ più al centro, quello del centrodestra si è spostato un po’ più a destra, e questo rischia di rendere problematico il dialogo.

2) È noto che, con il “porcellum”, non occorre che una forza politica ottenga il 51% dei consensi per avere la maggioranza in parlamento, basta che abbia un voto in più rispetto agli avversari. Nelle elezioni del 2006 le liste contrapposte, anche se affollate di sigle, erano solo due, e il problema non si poneva. Ma, in quelle del prossimo aprile, le forze concorrenti potrebbero essere quattro: Partito Democratico, Popolo delle Libertà, Cosa Rossa, centro cattolico. In tali condizioni, cosa succede se una forza dovesse vincere con un consenso relativamente modesto (poniamo del 35-40% dei voti)? Potrebbe avere ugualmente la maggioranza in entrambi i rami del parlamento. Ma le sarebbe riconosciuta l’autorità “morale” per governare o dovrebbe ripetutamente rispondere all’accusa di non rappresentare adeguatamente il Paese?

3) Che cosa accadrà ai perdenti? Partito Democratico e Partito delle Libertà hanno le spalle abbastanza robuste per reggere a una sconfitta o, in tal caso, sono destinati a sfasciarsi? Questa eventualità deve preoccuparci, perché è possibile avviare una stagione delle riforme solo se in Parlamento avremo condizioni di stabilità tanto fra i banchi della maggioranza quanto fra quelli dell’opposizione.

4) Infine, che cosa ne sarà dell’eredità democristiana? Chiunque abbia a cuore le sorti del bipolarismo dovrebbe augurarsi che l’elettorato cancelli ogni anacronistico tentativo di tenere in vita un centro che, con i suoi ricatti, mira a conservare un peso politico superiore al suo reale peso elettorale. Ma se così non avvenisse? Se l’elettorato non dovesse fidarsi dell’offerta politica dei due nuovi poli (PD e PdL) e facesse convergere una parte consistente di voti in quel che resta della Balena bianca? Dovremo rassegnarci a un Paese ingovernabile e tornare a sognare che l’UE risolva i problemi al posto nostro, trasferendo a Bruxelles e a Strasburgo sempre più competenze un tempo appannaggio dei governi nazionali?

Per parafrasare un famoso pamphlet del marchese de Sade: italiani, ancora uno sforzo...

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