lunedì 8 giugno 2009

Elezioni: rischio instabilità

Successo e insuccesso sono concetti relativi, condizionati in gran misura dallo scarto fra attese e risultati. E, dunque, quando mancano meno di quattrocento sezioni da scrutinare, di fronte al 35,2% del PDL è legittimo parlare di batosta. Non lo è in termini assoluti. Lo è perché il raccolto si dimostra molto inferiore alle speranze, e cioè ben al di sotto di quella soglia del 40% sbandierata in campagna elettorale da Berlusconi e dai suoi fedeli (nell’ultima ospitata nel salotto di Vespa, il Cavaliere si era incautamente spinto a citare un sondaggio che lo dava addirittura al 45%).

Questo avrà inevitabilmente un effetto sugli equilibri di governo e della coalizione. È vero che, a urne aperte, Bossi aveva dichiarato che, comunque fosse andata, niente sarebbe cambiato nei rapporti con l’alleato. Ma lo aveva detto prima di conoscere l’esito elettorale. A urne chiuse cambia tutto. Di fronte a un PDL indebolito e a una Lega rafforzata è difficile che, nonostante la sua lealtà verso l’amico di Arcore, il senatúr si astenga dall’alzare la voce sui temi più cari al Nord.

Non solo. Sarà ancor più difficile per il Cavaliere tenere a bada lo scalpitante Gianfranco Fini che sin dalla seconda legislatura berlusconiana non ha perso mai un’occasione per differenziarsi e accreditarsi come leader alternativo della destra. Il PDL non è Forza Italia: se la seconda era una monarchia personalistica ma non priva di momenti illuminati, la prima è una repubblica irrequieta, in cui convivono correnti autenticamente riformistiche (Brunetta, Frattini, Della Vedova...) e correnti regressive, di tipo clerical-nazionalistico. Berlusconi sarà costretto a prenderne atto a sue spese.

C’è da rallegrarsi di questo terremoto? Secondo me, no. Per niente. Potremmo rallegrarcene se da quest’altra parte ci fosse un centrosinistra forte, coerente e unitario, in grado di candidarsi a governare le contraddizioni del presente con maggiore persuasività. Ma questa sinistra non c’è: dal voto non esce. Per questo, il rischio è che dobbiamo attenderci un periodo di forte instabilità politica, alimentato da un’infinita, cronica conflittualità interna ai due fronti.

È inevitabile infatti che l’Italia dei Valori sia galvanizzata dal raddoppio del consenso elettorale, e si senta autorizzata a proseguire sulla strada di un radicalismo intransigente e muscolare. È quanto lasciano trasparire le prime gongolanti dichiarazioni di Di Pietro, rilasciate a caldo questa notte.

D’altra parte, in termini assoluti il PD prende una batosta ben più dolorosa di quella del PDL. Ma, ugualmente, potrebbe essere tentato di accontentarsi del 26,2% racimolato, giudicandolo comunque un passo avanti rispetto al 22-24% a cui il partito era dato nelle ultime settimane della gestione veltroniana. In sostanza, potrebbe imputare il calo a ragioni accidentali, dovute ai difetti di conduzione (anche di Franceschini, il quale ha fatto un’infelice campagna elettorale battendo su un unico tasto che magari avrà contribuito a ridimensionare l’avversario ma ha portato poca acqua al proprio mulino), e non a difetti del codice genetico che il PD si ostina a non voler vedere e a non affrontare seriamente come dovrebbe.

Insomma, anche se non può avere la botte piena e la moglie ubriaca, il PD potrebbe essere tentato di cercare di avere la botte mezza piena e la moglie mezza ubriaca. Un grosso errore. Perché, sulla distanza, finirebbe con l’indebolirlo ancor di più e con il rafforzare per contrasto il radicalismo galoppante oggi in Italia e altrove, a sinistra come a destra.

Questa eventualità potrebbe essere scongiurata, se il PD trovasse una nuova leadership, intellettualmente coraggiosa e che non abbia paura di mettere il dito nella piaga per ripulirla di quel pus che è la reale causa dei suoi mali. Ma, per il momento, all’orizzonte questa nuova leadership purtroppo non si intravede, né fra i vecchi né fra i giovani.


Poscritto

Mi sembra che i risultati definitivi delle europee e quelli ancora parziali delle amministrative corroborino le preoccupazioni qui espresse. Per quanto riguarda il centrodestra, nel weekend del 6-7 giugno si è registrata una sconfitta personale di Berlusconi, unita a una vittoria della Lega e del PDL che, nonostante le diplomatiche assicurazioni di fedeltà, avrà un’inevitabile conseguenza sui rapporti di forza interni (ne ha già dato prova la cena di Arcore) spingendo la coalizione verso posizioni più regressive.

Nel centrosinistra, abbiamo ascoltato tante dichiarazioni di autoconforto (comprensibili a caldo). Ma non sono mancati gli appelli ad analizzare senza pregiudizi le reali ragioni della sconfitta e ad avviare una nuova fase di discussione: per «fare un tagliando serissimo al nostro progetto», ha detto Giovanna Melandri. Sono appelli a cui ci uniamo senz’altro, sia pure non senza una ragionevole dose di scetticismo desideroso di essere smentito.


1 commento:

Paolo Delicato ha detto...

Caro Giuseppe,
come spesso accade condivido la tua opinione e le tue riflessioni.
Credo fermamente che una leadership sia oggi improbabile perchè all'interno della sinistra non si è data attenzione alle cose che uniscono, ma si è puntato, e molto, sulle cose che dividono. Queste ultime, a mio avviso, possono essere oggetto di discussione, ma non di abbandono della battaglia comune.
Tu conosci la mia idea, quella di ritrovarci sui valori comuni, costruire un qualcosa che raccolga non solo idee ed ideali ma risposte concrete e esiziali per il futuro del nostro Paese. Dobbiamo dimenticare per qualche anno interessi personali e personalistici, ritrovare il rapporto con le masse, il territorio, quelli che hanno veri problemi di sopravvivenza e di emersione. Dobbiamo discutere un pò di meno e costruire molto di più. Rinfacciare il passato molto di meno ed avere una visione della società moderna ed innovatrice, su nuovi paradigmi ma mai abbandonando i valori che sono alla base delle nostre idee. Il tempo ci sarà galantuomo (forse io non ci sarò più)e se avremo imparato a litigare di meno e fare più fatti, forse dimenticheremo anche le cose che ora ci dividono, essendo diventati veramente un partito democratico e riformista.

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