venerdì 21 dicembre 2007

Mozart & Da Ponte:
le sabbie mobili dell’amore

Lorenzo Da Ponte è una figura straordinaria, addirittura romanzesca: nato da una famiglia ebrea convertita al cattolicesimo, si fa prete, ma la passione per il gioco d’azzardo e le donne lo costringono ad abbandonare la tonaca. Per sfuggire al processo per libertinaggio, si trasferisce a Dresda e poi a Vienna, dove diventa librettista di Antonio Salieri e di Mozart (per il quale scrive tre capolavori). Ma dopo la morte di Giuseppe II cade in disgrazia, emigra a Londra e di lì negli Stati Uniti, dove insegna lingua e letteratura italiana.

A lui voglio dedicare queste note dopo aver visto Così fan tutte, riproposto a Milano in un allestimento che segue le note di regia di Giorgio Strehler: un’edizione freschissima, che si segnala anche per le notevoli qualità teatrali degli interpreti (non commento invece l’esecuzione perché, nonostante sia un melomane bulimico, non ho competenze di critica musicale).

L’opera è ricca di versi popolari: «È la fede delle femmine come l’araba fenice: che vi sia, ciascun lo dice; dove sia, nessun lo sa», «Stelle! Sogno o son desto?», «Quello che è stato è stato, scordiamci del passato.» La storia, ambientata a Napoli, appartiene del resto a tutti gli effetti al genere comico, e si nutre degli ingredienti classici della commedia: la scommessa, i travestimenti, la furbizia, l’infedeltà e le pene d’amore, le spassose ibridazioni linguistiche, il lieto fine. Ma i protagonisti non sono quelli tradizionali della comicità, appartengono ai ceti medio-alti: due ufficiali dell’esercito e due dame. Già questo è un fattore di enorme originalità creativa, che anticipa il dramma borghese otto-novecentesco.

Sul piano dei contenuti, tuttavia, la carica innovativa è ancora più sconvolgente. Così fan tutte termina con questi versi: «Fortunato l’uom che prende / ogni cosa pel buon verso, / e tra i casi e le vicende / da ragion guidar si fa.» Perché fortunato? Perché «quel che suole altrui far piangere» per l’uomo guidato dalla ragione sarà «cagion di riso» e anche «in mezzo ai turbini» del mondo «bella calma proverà». Siamo del resto negli ultimi anni dell’illuminismo (la prima rappresentazione dell’opera avvenne il 26 gennaio 1790). Ma per Da Ponte (e per il non meno libertino Mozart) che cosa vuol dire qui ragione?

Vuol dire prendere atto dell’incostanza dell’animo umano, che affonda le sue radici nelle sabbie mobili del desiderio. La psicologia settecentesca non soffoca né reprime le passioni. Tutt’altro. Vi si abbandona allegramente, in quanto elementi della natura. Ma non ne fa il principio regolatore del comportamento umano. D’altra parte, al contrario di quanto a volte si è sostenuto, il gioioso dramma mozartiano non ha alcun carattere misogino. La condizione umana è comune a entrambi i generi sessuali. Afferma il filosofo don Alfonso: «Solo saper vorrei / che razza di animali / son queste belle, / se han come tutti noi carne, ossa e pelle, / se mangian come noi, se veston gonne, / alfin, se dee, se donne son...» Gli fa eco la cameriera Despina: «Di pasta simile / son tutti quanti: / le fronde mobili, / l’aure incostanti / han più degli uomini / stabilità.»

Insomma, non la donna è mobile: è mobile l’essere umano in generale, per sua costituzione. E, per dimostrarlo, don Alfonso adotta il metodo sperimentale della cultura moderna: invita gli amici Guglielmo e Ferrando a verificare di persona, attraverso l’esperienza. Il risultato dell’esperimento esclude ogni sorta di moralismo: gli uomini non hanno colpa per quella che è una «legge di natura» (come la chiama Despina, doppio di don Alfonso, con espressione che non potrebbe essere più settecentesca). Semmai ci sarebbe da stupirsi se qualcuno a tale legge sfuggisse. Che cosa fare, stando così le cose? Lo dice la cameriera alle due sorelle, sue signore: «piuttosto che in vani / pianti perdere il tempo, / pensate a divertirvi», fate «all’amor come assassine», perché lo stesso «faranno al campo» anche «i vostri cari amanti».

La potente affermazione sembra riproporre l’etica libertina, che appena pochi anni prima aveva trovato espressione in quel capolavoro noir che è il Don Giovanni (alla cui stesura aveva collaborato anche Casanova). Ma qui il libertinaggio è in realtà appena accennato, e diventa piuttosto strumento di maturazione, non di perdizione eterna. A Guglielmo e Ferrando, sconvolti dalla scoperta dell’infedeltà delle amanti che essi stessi hanno provocato, don Alfonso risponde: «Ebben pigliatele / com’elle son. Natura non potea / fare l’eccezione, il privilegio / di creare due donne d’altra pasta / per i vostri bei musi», «l’amante che si trova alfin deluso / non condanni l’altrui, ma il proprio errore», «in ogni cosa / ci vuol filosofia.»

È errore illudersi: incolpare l’altro di non poter essere diversamente da come la natura ci ha fatti. È “filosofia” valutare i comportamenti considerando la “struttura” nella quale si concretizzano. In questo senso, il travestimento, a cui si sottopongono prima Guglielmo e Ferrando, poi Fiordiligi e Dorabella, non ha più niente da spartire con gli schemi del comico. Appartiene piuttosto alla tradizione iniziatica (che, un anno dopo, sarà al centro del più complesso ed enigmatico capolavoro mozartiano, Die Zauberflöte): bisogna diventare altro da sé per scoprire se stessi e la realtà delle cose.

Sorretto da una sostanziale fiducia nell’esistenza e nel destino condiviso, Così fan tutte propone appunto a un pubblico già culturalmente borghese un’iniziazione ai sentimenti, che si ponga alla base della famiglia moderna, assicurandone la stabilità. La famiglia che nasca per scelta, e non come esito di trattative diplomatiche – lasciano intendere Da Ponte e Mozart –, può basarsi soltanto su una ragione così intesa, che sappia attraversare gli inferi della passione e ritornare alla luce carica di una disincantata consapevolezza. Perché soltanto la consapevolezza della natura umana (comune a tutti) permette di apprezzare le qualità specifiche del singolo.


Così fan tutte
di Wolfgang Amadeus Mozart
uno spettacolo di Giorgio Strehler
libretto di Lorenzo Da Ponte ● maestro concertatore e direttore d'orchestra Christopher Franklin ● regia Carlo Battistoni ● ripresa Gianpaolo Corti ● scene Ezio Frigerio ● costumi Franca Squarciapino ● luci Gerardo Modica ● collaborazione alla regia Marise Flach ● Produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa in collaborazione con Accademia Teatro alla Scala

Personaggi e interpreti: Fiordiligi Teresa Romano ● Dorabella Francesca Ruospo ● Despina Irina Kapanadze ● Ferrando Leonardo Cortellazzi ● Guglielmo Christian Senn ● Don Alfonso Elia Fabbian

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Solo una nota sul Don Giovanni. Il soggetto è tratto dall'opera teatrale "L'ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra" scritta da Tirso de Molina nel 1630, e già ripreso da Molière nel 1665 e da Goldoni nel 1736.

Gabriele Téllez (nome reale di Tirso de Molina) era un religioso spagnolo entrato nell'Ordine della Mercede all'età di 27 anni.

Interessante notare come (per usare le tue parole) la strada per "attraversare gli inferi della passione e ritornare alla luce" di "una disincantata consapevolezza" circa la natura umana, ci venga da un religioso che ha preso i voti e non da un ateo dissoluto.

La consapevolezza è una meta che si raggiunge passando attraverso la disciplina, l'obbedienza e l'umiltà. Ma questa è la lezione che l'illuminismo non ha mai saputo né voluto imparare. Nemmeno da Don Giovanni.

Giuseppe Gallo ha detto...

La nota è giusta. Possiamo soltanto aggiungere che il personaggio acquista contenuti molti diversi nelle centinaia di versioni proposte tra Sei e Settecento (per tacere di quelle posteriori).

Sostanzialmente, Tirso de Molina (altra figura notevole, in realtà a lungo in conflitto con l'istituzione ecclesiastica) fa del "beffatore di Siviglia" il negatore della trascendenza più che il seduttore: un tema, questo, che in seguito sarà un po' ridimensionato. Anche per ragioni geografico-culturali, Da Ponte tende a privilegiare la versione goldoniana, più grottesca. Ma deve fare i conti con lo stesso Mozart, che interviene a fondo nella caratterizzazione del personaggio a cui intendeva dare un diverso e più complesso spessore.

L'ultima tua frase è un po' troppo sintetica perché si riesca a capire cosa vuoi dire di preciso. D'altra parte, in Germania il movimento illuminista si mischia ai moventi esoterici, massonici, mistici, eccetera. Lo si vede nel "Flauto magico" ma anche, e soprattutto, in Goethe (che tra l'altro è nato lo stesso anno di Da Ponte). In quell'ambiente, è difficile separare la fiducia nel lume della ragione dalle inquietudini religiose e, persino, dall'attrazione esercitata dalla notte dei sensi. Ogni lume, razionale o mistico, ha la necessità di inoltrarsi nel buio. E' davvero una "legge di natura".

In "Così fan tutte" la tematica religiosa è semplicemente assente. Ma il suggerimento morale che ne emerge non è in conflitto con quanto sostiene il pensiero cattolico. Al contrario, riguardo al tema della famiglia, movimento illuminista e Chiesa si trovavano sullo stesso fronte: è bene che un'unione matrimoniale nasca dall'amore (in contrapposizione all'unione nata dalle trattative diplomatiche), ma l'amore non può essere il fondamento dell'unione matrimoniale. E' necessario un fondamento più stabile. Per Da Ponte questo fondamento è la filosofia, cioè la verità dimostrata dalla ragione (intesa in senso molto pratico, non specialistico: siamo pur sempre all'interno del genere comico). Per la Chiesa è la verità colta dalla fede. Ma, per la Chiesa cattolica, la fede non può essere in disaccordo con la filosofia (questo era l'insegnamento di Tommaso d'Aquino). Anche per la Chiesa, insomma, "in ogni cosa ci vuole filosofia".

Ovviamente, questa morale, modernissima nel Settecento, risulta oggi inattuale. Chi, in un'epoca che non riconosce più freno agli istinti, sosterrebbe che la famiglia, per durare, deve basarsi sulla filosofia? Ma non è detto che ciò che è inattuale sia anche del tutto sbagliato.

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