martedì 18 dicembre 2007

Le geometrie di Cronenberg

Le strade e le piazze di Milano, in questi giorni, fanno a gara per apparire più brutte. Tra il blu psichedelico di piazza Cinque Giornate, i poliedri di piazza della Scala, i putti verdi di via Manzoni e gli sgorbi alati di via Turati non so che cosa sia peggio. E dire che persino negli anni della Milano da bere ci si limitava ad addobbare gli alberi di palle colorate, a luci intermittenti. Nonostante il craxismo dilagante, quella era una città che conservava un aspetto familiare, casalingo. Gli alberi colorati nei giardini e nelle aiuole erano solo un po’ più grandi di quelli che si tenevano in salotto. La differenza non era sostanziale.

Oggi, gli alberi sono soffocati da bardature luminose che sembrano prese a prestito dalle più chiassose discoteche. È la violenza il comun denominatore delle illuminazioni milanesi sotto Natale, non la gioia della festa. La violenza spersonalizzata del potere, un potere piccolo, minuscolo (chi sa il nome dei responsabili di quelle luci?), che tuttavia non accetta di passare inosservato e vuole strappare l’attenzione dei passanti. E lo fa con la stessa aggressività dei decibel del traffico urbano. Un potere che ama la morte, non la vita.

È quanto ho pensato uscendo dal cinema dopo aver visto un film estremamente duro, ambientato proprio durante le feste di Natale, che parla di un diverso genere di violenza: quello della mafia russa, trapiantata a Londra. La promessa dell’assassino (Eastern promises) di David Cronenberg è un grande film, che si distingue anzitutto per la recitazione senza sbavature dei suoi interpreti: Armin Mueller-Stahl (l’affabile e duro Semyon, proprietario di un lussuoso ristorante e spietato capogang), Vincent Cassel (nel ruolo del nevrotico figlio Kirill, ubriacone e criptogay), Viggo Mortensen (il cinico quanto enigmatico autista Nikolai), Naomi Watts (l’ostetrica Anna Kithrova).

Ma la violenza di La promessa dell’assassino non è quella spersonalizzata del potere, è piuttosto quella della tragedia, che vede contrapposti uomini che, nonostante le loro debolezze, si sforzano di ergersi al ruolo di eroi, sia pure del male. Non mancano le scene d’azione e lo spargimento di sangue. Ma è il dialogo il motivo di forza di questo film che, come in ogni vera tragedia, concentra l’attenzione sui rapporti fra i personaggi, raccontati attraverso una serie di splendide geometrie e parallelismi.

Nella famiglia di Anna è assente la figura paterna, sostituita dal burbero zio Stepan, nella famiglia di Semyon manca invece quella femminile. Ma tre sono i membri della famiglia dell’ostetrica, tre sono i mafiosi con i quali il destino la costringe a confrontarsi. Un doppio triangolo. Triangolare è anche il rapporto fra Anna, Kirill e Nikolai. Triangolare quello fra Kirill, Nikolai e Semyon. E si potrebbe andare avanti con gli esempi.

In questo universo tragico, la violenza è un dato della natura, non appartiene alla Storia (che fa capolino solo di striscio, con la trasformazione del KGB). È una presenza quasi metafisica che la vita non può espungere. Ed ha un carattere estremamente ambiguo. Buoni e cattivi si confondono, usando gli uni e gli altri i medesimi mezzi. Questo è un tema centrale in ogni moderno thriller. Cronenberg, laureato in letteratura inglese presso l’Università di Toronto, ha il merito di avergli conferito una profondità esistenziale.

1 commento:

Susanna Janina Baumgartner ha detto...

Non avevo fatto caso alle geometrie triangolari, alle mancanze sì. Non c’è madre, non c’è padre e una bimba sola con una donna sola. Questo non l’hai scritto, ti ha colpito meno. Eppure resta un due più due nella storia, perché lei terrà la bimba e lui starà accanto al criptogay per combattere dall’interno la mafia.

Si rompe la geometria del tre, quel tre che avrebbe trovato pace e senso nei due che avrebbero potuto stare insieme e insieme allevare la bimba. Insomma, vince il due che lascia il desiderio del tre, in queste vite di confine che toccano, con estremo coraggio, la sofferenza da vicino e non hanno paura di sporcarsi per una nobile causa, anche a costo di perdere tutto, di perdere la vita.

Lei è eroica quanto lui e salvare la bimba è più importante che salvare se stessa e i propri cari.
Quel che conta è una nuova vita, la bimba che ha ancora un futuro. Gli altri hanno già scelto, vivono in mezzo alla sofferenza con un necessario distacco per sopravvivere, ma ancora pronti a combattere per fare giustizia. E chi non è forte perde la ragione o la vita.

Mi piace che non ci sia giudizio, solo lo zio si permette di sputare e dire. Appartiene alla generazione dei valori dati. Anche il vecchio russo a modo suo: vietato essere deboli e finocchi. Il figlio piange con la bimba in braccio e rivela la sua natura duplice di tenero e violento, non ha altra scelta che trovare una guida, lui è fuori posto, comunque diverso.

Eroismo vero dunque. Eroica lei che tiene la bimba, anche se da subito la desidera, eroico lui che rinuncia alle due per combattere dall’interno la mafia e tenere a bada il figlio folle e sconfiggere il vecchio. I due hanno a che fare ogni giorno col sangue e la morte e sanno affrontarla, ma non possono affrontare la vita insieme. Tragico e oserei dire anche sublime. Sono Sturm und Drang, lo so!

Concludo, tornando alla nostra epoca, riferendomi a un altro rapporto legato alla geometria del due: l’io e il doppio. Nell’autista, quindi quello che guida, vi è un doppio evidente per lo spettatore che sa, mentre la protagonista, che non può sapere, chiede, perché vede e lui in risposta la bacia.

Lui è quello che taglia freddamente le dita di un cadavere e nello stesso tempo media e sorveglia ogni situazione, cercando ogni volta il male minore e riuscendo a conquistare la fiducia con le sue azioni. Ma c’è altro modo di conquistarsela? Rischia la vita, ma sa come comportarsi in ogni situazione per preservare se stesso e gli altri. Non teme i suoi lati ombra, li usa per uno scopo: difendere i più deboli e gli incoscienti.

Non ci si può considerare puri e santi, il male ci circonda ed è anche dentro di noi, ma possiamo scegliere che uso fare di noi stessi, compresa la nostra ombra che è forza se abbiamo il coraggio di farne la conoscenza e poi “usarla” con coscienza.

Attuale, decisamente, il problema del conoscere e integrare l’ombra che ci sfugge, oggi più che mai, se non abbiamo la forza e il coraggio di affrontarla. Quotidiano eroismo della consapevolezza per poter tornare all’uno.

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