giovedì 25 marzo 2010

Per gli ottant'anni di Vittorio Spinazzola

Non so dove trovassimo il tempo. Sta di fatto che negli anni Settanta, al liceo, gli scrittori contemporanei non solo li leggevamo, ma addirittura li commentavamo in classe e li portavamo all’esame di maturità. I nomi sono quelli entrati a far parte del canone del Novecento: Svevo, Moravia, Gadda, Elsa Morante, Pasolini, Calvino, Sciascia... E poi Thomas Mann, Musil, Bulgakov, Camus, Sartre, Céline, Kerouac, eccetera, eccetera.

La novità era duplice. Erano autori contemporanei (alcuni viventi) e, soprattutto, erano romanzieri. Credo sia difficile cogliere la portata innovativa di questo secondo aspetto, oggi che la civiltà del romanzo si è definitivamente acclimatata anche da noi. La gerarchia dei generi che ha dominato per secoli la nostra tradizione letteraria è stata ribaltata negli ultimi decenni. Ma sino a poco tempo addietro era la poesia a detenere il primato assoluto dei generi. Né la neoavanguardia lo aveva messo in discussione. Anzi, nonostante il duro colpo inferto alla lirica – abbandonata a favore delle sperimentazioni poematiche o visive o astratte –, lo aveva ulteriormente rinforzato ponendo il massimo dell’attenzione sugli aspetti di linguaggio e affidando alla poesia una missione addirittura eversiva.

Poco dovrebbe stupire invece il carattere internazionale delle letture sopra menzionate. Il cosmopolitismo, in effetti, è una peculiarità congenita alla letteratura italiana e all’educazione umanistica in Italia. Lo abbiamo nel nostro DNA. Semmai il nostro difetto è quello opposto: la scarsa disponibilità a rappresentare in termini estetici il destino collettivo della nazione.

L’ingresso della contemporaneità e del genere romanzo nei licei – ossia nelle sedi deputate a trasmettere la cultura classica – fu senz’altro uno degli effetti positivi del movimento sessantottesco, che pure per altri aspetti lasciò un’eredità pesante, spesso nefasta per la scuola. Oggi lo possiamo dire anche da sinistra. Il ’68 tuttavia contribuì anche ad altri due risultati largamente positivi: la costituzione delle prime cattedre di storia della letteratura italiana moderna e contemporanea nelle facoltà di lettere e la riapertura, da parte degli scrittori, del dialogo con il pubblico che era stato interrotto dalle sperimentazioni neoavanguardistiche.

Non ricordo perché scelsi di iscrivermi a lettere (mi sarebbe piaciuto anche studiare matematica o fisica). Ma, una volta presa la decisione, fu naturale per me seguire le lezioni di Vittorio Spinazzola, docente alla Statale di Milano appunto di letteratura italiana contemporanea. Era quella la direzione verso cui mi spingevano le letture fatte al liceo e gli amori letterari che ne erano nati. D’altronde, Spinazzola era un critico militante che conoscevo da tempo per i succosi articoli che andava pubblicando su «l’Unità». E senz’altro questa sintonia politica ha concorso a farmi decidere, praticamente fin da subito, di laurearmi con lui.

Ciò che non potevo immaginare è che Spinazzola mi avrebbe spalancato le porte di un mondo nuovo e mi avrebbe fornito gli strumenti per esplorarlo. Questa è la virtù dei grandi maestri, e lui lo è stato per una generazione e oltre di studenti (le tracce della sua impronta sono reperibili in tutto ciò che scrivono i suoi allievi). I testi già letti o scoperti per la prima volta nei suoi corsi – Gramsci, Dossi, Gadda, Arbasino, Pasolini... – acquistavano, attraverso le parole di questo grande intellettuale, una limpidezza nuova: non ponevano resistenza allo sguardo critico, si svelavano docilmente nei loro aspetti costitutivi. E, soprattutto, lasciavano trasparire il reticolo di rapporti che li legavano al nostro destino, alla vita del Paese.

Perché questa è l’originalità di Spinazzola. Da un lato, egli non esita ad appropriarsi dei molteplici utensili di analisi testuale approntati dalle differenti scuole della critica novecentesca, inclini a concentrare l’interesse sui materiali compositivi e sulla loro disposizione strutturale. Dall’altro lato, ripropone in forme personali e aggiornate quell’interesse per la storia che gli deriva dalla linea De Sanctis-Gramsci e dalla frequentazione di un marxismo lucidamente interpretato, senza nessuna concessione alle derive deterministiche che hanno gravato su gran parte della critica di sinistra.

Ma, soprattutto, l’interesse prevalente per il romanzo ha portato Spinazzola ad approfondire il rapporto che un testo intrattiene costitutivamente con il pubblico L’avverbio è importante: costitutivamente. Vuol dire che quello che un testo stabilisce con i suoi destinatari reali non è un rapporto accidentale, che può sussistere o meno. No, è un rapporto imprescindibile, necessario. Detto molto semplicemente, non c’è letteratura senza un pubblico che riconosca una qualità letteraria al testo che ha sotto gli occhi. Persino il maggiore dei capolavori è destinato a restare nell’oblio in assenza di un lettore che ne colga le peculiarità di eccellenza estetica.

Da questo ampliamento dell’orizzonte critico che studia il testo in chiave funzionalistica considerandone i destinatari nascono i volumi teorici di Spinazzola, nonché alcuni splendidi saggi monografici che riesaminano in una luce inedita i giganti del nostro passato recente: Manzoni, Verga, De Roberto, Pirandello... Da qui derivano anche due annuari realizzati in collaborazione con i discepoli e provocatoriamente intitolati Pubblico e Tirature (di quest’ultimo cade quest’anno il ventennale).

Questo uomo mite e intellettualmente rigorosissimo, d’altronde, ha sempre avuto il gusto della provocazione intellettuale. È stato uno dei primi a prendere in esame senza pregiudizi quei prodotti della fantasia creatrice che l’accademia snobbava: il cinema, il fumetto, i generi della narrativa di consumo e addirittura quelli della letteratura marginale, pornografia compresa. Tutti prodotti che i custodi del gusto liquidavano come letteratura spazzatura.

Una cosa però va precisata. Spinazzola si è sempre ben guardato dal confondere i valori letterari. Neppure si sognerebbe di collocare sullo stesso piano, poniamo, il Pasticciaccio di Gadda e i romanzi di Camilleri. Questo non gli ha impedito di chiedersi perché fra i moltissimi polizieschi pubblicati ogni anno quelli del gran vecchio siciliano vendono migliaia di copie e quelli dei suoi concorrenti no. Che cosa posseggono che gli altri non hanno?

Per rispondere seriamente a questa domanda – e cioè accantonando le risposte preconfezionate –, non abbiamo che un modo: prendere in mano i testi e sottoporli al vaglio critico, impiegando gli stessi strumenti che utilizziamo per le opere degli autori più blasonati e graditi alla comunità dei lettori di professione.

Qual è dunque il senso della lezione lasciataci da questo grande dell’intellettualità italiana? Io la riassumerei in due punti. Primo: Spinazzola ci offre l’esempio di un umanesimo autentico, che non rinuncia alle sue prerogative (il rigore dell’analisi, l’importanza del linguaggio...), ma neppure si ritrae di fronte ai fenomeni della modernità, che anzi si sforza di comprendere senza tentazioni consolatorie. Secondo: Spinazzola ci permette di cogliere le potenzialità positive di una democrazia culturale che in Italia continua a essere molto gracile, almeno quanto la democrazia politica, ma che nondimeno è uscita dalle sacche dell’aristrocraticismo più baldanzoso.

Qui sta anche il motivo di maggiore interesse pubblico della sua ricerca. Spinazzola è stato un validissimo polemista. Ma tutti i suoi testi, non solo quelli militanti, sono percorsi da una robusta tensione politica. Tuttavia tale tensione non si esprime nel giudizio ideologico, bensì nell’esercizio di un’intelligenza critica posta al servizio di un ampliamento della civiltà culturale e cioè della democrazia in Italia.

venerdì 19 marzo 2010

Come si fa un libro

Venerdì 26 marzo
Libri come. Festa del Libro e della Lettura
Auditorium Parco della Musica - Roma
Garage - Officina 5, ore 21

Presentazione del libro Tirature 2010 Autori, editori, pubblico: i vent’anni di Tirature

Intervengono Giuseppe Gallo (giornalista e sociologo della letteratura), Maria Serena Palieri (giornalista de “l’Unità”), Bruno Pischedda (Università degli Studi di Milano), Rosella Postorino (scrittrice).

A cura della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e Il Saggiatore.

Info: Auditorium Parco della Musica

martedì 22 dicembre 2009

Riforme: perché sì al dialogo

A siglare un patto col diavolo si perde l’innocenza. Ma non vedo il motivo di ignorare i benefici che se ne ricavano, visto che per convincerci a cedergli l’anima il diavolo dovrà pur dimostrarsi in grado di soddisfare il desiderio a cui maggiormente teniamo. Altrimenti il patto non si fa o decade. Certo, saranno benefici provvisori e controversi. E, tuttavia, c’è qualcosa in politica che non sia provvisorio e controverso? Insomma, non riesco proprio a capire la levata di scudi da parte degli irredentisti contro l’apertura al dialogo sulle riforme. Tanto più che a sinistra abbiamo una lunga tradizione favorevole al compromesso, avviata da Togliatti e proseguita con Berlinguer.

Si obietterà: ma non è un dialogo alla pari! Vero. Ma non lo era neppure quando il dialogo era con la DC. Oppure si potrà osservare: ma gli italiani non capirebbero, sono altri i problemi che devono affrontare quotidianamente, le questioni istituzionali che si vogliono riformare si collocano oltre il loro orizzonte, addirittura su un pianeta remoto, incomprensibile e difficile da sondare, perché richiede competenze altamente specialistiche che solo una minoranza degli stessi parlamentari possiede. Anche questo è vero, ma non è un’obiezione pertinente, perché proprio una “macchina” un po’ meglio funzionante e oleata consentirebbe di affrontare con una certa efficacia quei problemi su cui si concentrano le preoccupazioni degli italiani e che ora rimangono fuori della nostra portata.

Si potrà anche dire: ma noi sappiamo cosa, dietro la facciata delle riforme, ci chiede Berlusconi (restituire linfa a una legislatura esangue, garantendogli la momentanea immunità dai processi in corso contro di lui), non sappiamo cosa vuole invece il PD e cioè che cosa pone sul tavolo delle trattative, cosa intende guadagnare dal dialogo. È l’obiezione “riformista” mossa da Stefano Menichini su «Europa», molto diversa da quella “irredentista” del partito di «Repubblica». Ed è l’unica obiezione fatta sinora che vale la pena di prendere sul serio.

Non tocca a me dare una risposta. Tocca al PD, tocca a Bersani. Io mi limito a due osservazioni. Primo: se il prezzo che ci chiede Berlusconi è l’immunità, non c’è ragione di tirarsi indietro, lo si può pagare chiedendo in cambio una “merce” che valga quel prezzo. Molto peggio lasciare che, per difendersi, il Cavaliere dia un colpo mortale al sistema giudiziario, come avverrebbe qualora fosse approvato il cosiddetto “processo breve”, che è in realtà una prescrizione anticipata.

Secondo: Menichini sa bene che sulle cosiddette riforme c’è un confronto aperto da tempo e che su molte questioni (funzioni e poteri dell’esecutivo, elezione diretta del premier o sistema parlamentare, separazione delle carriere sì o no, proporzionale o maggioritario, ecc.) ci sono posizioni trasversali, non omogenee a questo o quell’altro fronte. Se non apriamo il dialogo su questi temi, su quali dovremmo farlo?

martedì 17 novembre 2009

Il conservatorismo non abita più a destra


Nel secondo libro della Politica, Aristotele affronta una questione che oggi suonerebbe ingenua a molte orecchie di destra e di sinistra. In sostanza, si chiede il filosofo stagirita: «È dannoso o giovevole agli stati mutare le leggi tradizionali, quando ce ne siano altre migliori?» La risposta sembrerebbe scontata: certamente è giovevole. Tanto più che, come riconosce lo stesso autore, «tutti cercano non quel che è tradizionale, ma quel che è bene». Ma, subito dopo, Aristotele osserva che «per chi esamina la cosa da un altro punto di vista, il cambiamento sembra richiedere molta cautela».

giovedì 5 novembre 2009

I pezzi del PD


Il Pd perde un altro pezzo. Dopo la vittoria di Bersani alle primarie, anche Massimo Calearo – capolista nella circoscrizione Veneto 1 alle scorse politiche per volere di Veltroni – annuncia infatti il suo addio. E si giustifica: «Io di sinistra non lo sono mai stato.» Ma sbaglia oggi il PD a guardare a sinistra, come ritengono pure Cacciari e Rutelli, o ha sbagliato prima imbarcando outsider della politica che poco o nulla avevano da spartire con i suoi presupposti?

mercoledì 28 ottobre 2009

Nuvoletti: il PCI in vacanza

Alla fine degli anni Settanta, Capalbio è già «un posto pieno di comunisti», che vi trascorrono le vacanze assieme a «mezza aristocrazia milanese che possiede tutta la costa». Tuttavia questo «delizioso accidenti di paesino medievale» a sud della Toscana non è ancora stato preso di mira né dai vip né dai flash dei fotoreporter né dalle folle di turisti che vi si sarebbero riversati negli anni a venire. Conservava anzi un suo aspetto selvatico, «molto folk», punteggiato dalla presenza dei cinghiali: «una pizza mortale» per una ragazza dell’età di Libera, protagonista di L’era del cinghiale rosso di Giovanna Nuvoletti (Fazi Editore, pp. 278, euro 18,50).

Quando arriva a Capalbio per la prima volta nel ’77, Libera ha appena tredici anni e non trova «niente di che» nel «passare le serate al ristorante a mangiar salsicce di cinghiale coi comunisti» o nell’andare a vedere un Roberto Benigni ancora pressoché ignoto che gira Il comizio: anzi, fa spallucce, risale sul motorino, e se ne va per la sua strada. Ha ben altro per la testa: ha voglia di consacrarsi alla sua vitalità giovanile, desiderosa di nutrirsi di musica, amori, balli, svaghi. Proprio tale vitalità è all’origine di una diffidenza critica verso il clericalismo comunista che, con l’età della ragione, acquisterà un diverso spessore, traducendosi in un anticonformismo liberale o meglio libertario, a volte scanzonato e a volte crudelmente tranchant.

L’era del cinghiale rosso è un originale romanzo storico che racconta le vicende della sinistra italiana e del nostro Paese secondo un punto di vista programmaticamente defilato e parziale: quello di una figura femminile caratterizzata da un misto di istintualità e problematismo critico che, a dispetto delle difficoltà economiche, ha il privilegio di conoscere da vicino alcuni dei massimi protagonisti della cultura e della politica italiana tra prima e seconda Repubblica: Alberto Asor Rosa, Giacomo Marramao, Carlo Muscetta, Philippe Daverio, Aldo Tortorella, Achille Occhetto, Claudio Petruccioli, Enrico Manca, Giorgio La Malfa, Claudio Martelli, Chicco Testa, Francesco Rutelli, e tanti, tantissimi altri.

Sotto questo profilo, L’era del cinghiale rosso forma col precedente Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più una sorta di dittico letteriario. Gli elementi di consonanza tematica e compositiva sono infatti più che evidenti: il mare, le vacanze, i vip, il taglio degli episodi, la tensione antiromanzesca... Nondimeno, se i Gamberi si distinguono per la maggiore complessità espressiva e strutturale (al tema storico si intreccia qui quello privato-esistenziale, legato al suicidio materno), L’era del cinghiale rosso si presenta come un romanzo più compatto, linguisticamente sciolto e divertito, ricco di autoironia: Libera si prende difatti la liceità di ritrarre la stessa Nuvoletti, senza peraltro farle troppi sconti, anzi!

Ma cosa rimprovera la protagonista-narratrice ai comunisti? Sostanzialmente, di essere comunisti o – il che è lo stesso – di non essere liberali. La contrapposizione è spesso netta: «L’attività principale di buona parte degli intellettuali era prendersela con la centrale nucleare di Montalto, che mai nacque», mentre lei, Libera, al nucleare è «sempre stata favorevole». E quando a Capalbio fa capolino Toni Negri «per abbracciare Alberto Asor Rosa», la ragazza non ha mezzi termini: pur avendo «sempre nutrito un certo affetto» per i radicali, lei il professore di Padova non lo avrebbe mai candidato. Ma soprattutto, quando Pietro Ingrao in TV afferma che l’invasione della Cecoslovacchia fu un errore, sbotta: «Un errore? Arrossii e gridai: “Quale errore? Un crimine!”» E, molto più avanti, alla presentazione di un libro contro i sindacati, ammette candidamente: «Io gongolo: li odio» [i sindacati].

Tuttavia il giudizio poco alla volta si fa più sfaccettato. Come tanti liberali e non comunisti italiani, anche Libera comincia ad «afferrare il concetto di diritti, di uguaglianza». La precisazione è d’obbligo: «Non i paroloni vuoti della retorica marxista. Un’altra cosa, diversa. La vita delle persone. Noi liberali abbiamo grande rispetto dell’individuo.» Ma il passo è compiuto. D’altra parte, è proprio il «rispetto dell’individuo» a portarla progressivamente a spostare la sua verve polemica contro altri obiettivi: i giornali che raccontano il falso su Capalbio e il turismo di massa che va trasformando il volto di questa cittadina medievale.

Ed è difficile resistere alla tentazione di dare a queste pagine un valore metonimico. Come dire: se il giornalismo nell’era della democrazia mediatica restituisce un’immagine interessata degli eventi mondani della piccola Atene perché dovrebbe fare diversamente quando racconta i più importanti eventi politici della nazione? Alla fine del romanzo quella che rimane è un’impressione di sconfitta, che sembra accomunare tanto la tradizione comunista quanto quella liberale: entrambe soccombono infatti di fronte al medesimo destino, entrambe si dimostrano inadeguate a difendere le ragione dell’umanesimo di fronte all’avanzare della spersonalizzazione propria della contemporanea società dei consumi e dell’apparire.

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