giovedì 19 febbraio 2009

Storia balneare d’Italia:
i “Gamberi” di Giovanna Nuvoletti

Nel panorama della narrativa di qualità, Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più di Giovanna Nuvoletti è senz’altro uno degli esordi più interessanti e letterariamente complessi. Il libro può essere letto come una riflessione narrativa sulla storia d’Italia, ripercorsa secondo un originale quanto straniante punto di vista: quello dei più o meno blasonati frequentatori della Capannina, il famosissimo locale di Forte dei Marmi, inaugurato nel 1929 da Achille Franceschi.

I grandi avvenimenti della storia collettiva (il fascismo, la guerra, la ricostruzione, il boom economico, la contestazione giovanile...) e le trasformazioni sociali che a essi hanno fatto seguito sono rivissuti appunto attraverso le conversazioni e i comportamenti di questo microcosmo privilegiato, che l’autrice – fotografa di razza e figlia di un maestro d’eleganza quale il “conte” Giovanni Nuvoletti Perdomini – conosce bene ma nel quale pure non si riconosce e che anzi dipinge con tratti di forte distorsione espressionistica.

Va subito aggiunto tuttavia che alla tematica storico-sociale se ne affianca un’altra di carattere privato: il trauma che la narratrice ha subito in età adulta per la morte della madre, esempio precorritore di femminilità spregiudicata e indipendente. Questa commistione tematica non deve stupire. Ha un precedente eccelso: Carlo Emilio Gadda. Ma, mentre l’autore della Cognizione del dolore non esita a dare espressione ai propri furori per la felicità sottrattagli, al contrario la Nuvoletti preferisce dissimulare narrativamente il proprio dramma, che solo l’ambigua dedica collocata alla fine del libro lascia trasparire: «Ad Adriana, quella vera. Che io non ho perdonato mai.» Sembra quasi che per lei la scrittura abbia assolto fra l’altro una tardiva funzione terapeutica che la sua morale aristocratica le impone di non esternare troppo.

Per contro, mentre l’inquietudine privata e lo sdegno per il tradimento morale della borghesia meneghina in Gadda trovano parziale conforto nella contemplazione del vitalismo elementare dei ceti popolari, nel suo libro la Nuvoletti non accondiscende ad alcuna forma di risarcimento. Anche la scarna e quanto mai essenziale descrizione paesaggistica non concede nulla all’intenerimento lirico, astenendosi programmaticamente dal registrare le meraviglie naturali delle Alpi Apuane e della porzione meridionale del mar Ligure. La narratrice si limita a offrire le informazioni ambientali necessarie a inquadrare la scena con un pressoché costante ricorso alla frase nominale: «Luna coperta a tratti da nuvole in corsa, mare che sbatte sonoro sulla riva» (p. 19); «Luce d’inizio estate, limpida e lattea. Il mare è spettinato da qualche folata di vento» (p. 65); «Notte. Tempo di guerra. Intorno alla Capannina buio e silenzio. Al parcheggio, niente automobili, solo biciclette. Dentro, niente orchestre né balli» (p. 71).

D’altra parte, ad avvicinare la narrativa della Nuvoletti allo sperimentalismo lombardo (Dossi, Bontempelli, Gadda, Arbasino, Umberto Simonetta) intervengono altri due motivi di consonanza poetica: la condivisione di un umanesimo critico sorretto da una pensosa visione morale del divenire storico che respinge ogni facile illusione nelle «magnifiche sorti e progressive» propria tanto del realismo socialista quanto di quello borghese ottocentesco; e il conseguente disinteresse per l’intreccio ad ampie volute popolato di personaggi tratteggiati in modo corposo, a cui qui viene preferita una narratività antiromanzesca, in cui s’avvicendano figure quasi bidimensionali o ectoplasmiche, appena accennate.

Il soggetto del resto – raccontare la storia d’Italia attraverso le vacanze di un gruppo di nobili, finti nobili e ricchi borghesi – impone una strutturazione esasperatamente ellittica dei materiali narrativi, disposti in brevi capitoli ciascuno dei quali focalizzato su un mese balneare: “Agosto 1929”, “Agosto 1930”, “Luglio 1931”... La scelta risulta ancora più marcata se si considera che su molte annate il racconto sorvola del tutto, con una frequenza crescente man mano che ci avviciniamo ai nostri giorni (1982-83, ’86-87, ’88, ’91, ’93-96, ’98-2003, 2004-2005).

Alla parzialità della scansione cronologica si sovrappone la parzialità del punto di vista dei personaggi cui spesso la narratrice addirittura nega una qualsiasi forma di individualità riconoscibile. L’uso degli indefiniti, dell’impersonale e dell’astratto al posto del concreto è insistente: «Qualcuno disse... Alcuni risero» (p. 41); «Una delle signore chiede... Un’altra risponde» (p. 25); «Si sorride. Si alzano bicchieri per brindare. Stancamente, si intreccia qualche pettegolezzo» (p. 66), «All’improvviso si alza una voce dall’accento milanese» (p. 16)...

Anche il ricorso al tricolon, depurato della morbida sensualità dannunziana, è volto a denunciare il carattere mistificante di una drammatica commedia mondana: «Sentiva arrivare le voci, eleganti, annoiate, disinvolte» (p. 11: dove l’aggettivo intermedio, annoiate, corregge in funzione antifrastica gli altri due). Non solo. Ad accrescere la distanza dai personaggi dell’io narrante contribuisce la saggezza postera di quest’ultima. «Nessuno ci separerà mai» promette la piccola Gemma al compagno di avventure della sua infanzia. «Furono separati» commenta con ironia la narratrice, che sa molto più delle sue creature, non perché s’arroghi una onnisciente superiorità ottocentesca, ma semplicemente perché conosce il seguito degli eventi e può valutare i fatti col senno di poi.

Col senno di poi, appunto, la storia d’Italia raccontata dalla Nuvoletti appare una successione di eventi scollegati fra loro, privi di un senso, di una direzione, di una logica unificante: insomma, una non storia. Si capisce che in questo contesto anche le forze idealmente portatrici di un messaggio di rinnovamento storico siano dipinte con sospetto: come in Gadda e in Arbasino, la borghesia imprenditoriale del Nord sembra più preoccupata di scimmiottare i modelli di comportamento della nobiltà che ha sostituito piuttosto che di garantire al Paese un governo all’altezza delle sfide della modernità.

Anche la contestazione giovanile e l’avanzata elettorale del movimento comunista negli anni Settanta passano senza lasciare il segno. Suscitano il temporaneo entusiasmo della giovane e ribelle Flora, alter ego molto mediato della narratrice. Non si dimostrano tuttavia in grado di produrre il cambiamento auspicato. A emergere dai Gamberi è insomma una diagnosi storica di aspra severità (forse troppo aspra per suscitare il consenso del pubblico di massa), frutto di una disillusione che non riconosce tuttavia diritto di cittadinanza alla nostalgia per il passato elitario.

I Gamberi sono il racconto di una scrittrice che ha avvertito un profondo senso di estraneità rispetto al milieu storico-sociale in cui l’è toccato in sorte di vivere e ha tentato sinceramente di emanciparsene cercando altri modelli di organizzazione della vita consociata e individuale che tuttavia non hanno mantenuto le promesse. Alla Nuvoletti non resta dunque che esaminare senza compiacimenti e senza mistificazioni un destino bloccato, in cui non si va né avanti né indietro.


Giovanna Nuvoletti
Dove i gamberi d’acqua dolce non nuotano più
FAZI

pp. 298, € 16,00

domenica 8 febbraio 2009

Che cos’è l’arte contemporanea?

di Susanna Janina Baumgartner

Un ciclo di incontri sull’arte contemporanea, dal titolo Che cos’è l’arte contemporanea, ha portato un vasto pubblico al PAC grazie alla collaborazione fra Assessorato alla Cultura di Milano e ACACIA – Associazione Amici Arte Contemporanea.

I quattro appuntamenti (il prossimo e ultimo si terrà il 17 febbraio) hanno avuto inizio il 13 gennaio con l’attesissimo critico e storico dell’arte Germano Celant che ha dato una possibile visione “apocalittica” di un’arte senza scampo. Un’arte che vede nel mantenimento del soggettivo e di un’estrema individualità la possibilità di un’offerta e quindi di un progetto che possa essere anche veicolo di positività nel creare relazioni, ma che si trova poi a essere promozione turistica e coloniale di mondi vergini, come ad esempio i deserti arabi, diventando quindi un mezzo per esaltare nuovi centri di potere.

Si creano quindi musei grandiosi che diventano luoghi di attrazione, consumo e seduzione, mentre le opere diventano cartoline rappresentative del prestigio di una città per un’arte che sia funzionale come la moda. Persino il Vaticano, conscio del potere propagandistico dell’arte, ha deciso di proporre, per la biennale del 2011, opere di Anish Kapoor e Bill Viola; così come gli sceicchi che coniugano anche per l’arte fede e potere.

Vi è un procedere omogeneo da nord a sud e da est a ovest. La preoccupazione di Celant, rispetto alle istituzioni che desiderano occuparsi dell’arte, è che vi siano operazioni commerciali di cattiva qualità. La scelta delle opere andrebbe sempre fatta con specialisti qualificati e con la preziosa collaborazione di galleristi e collezionisti.

Se prima vi era, come ha detto Maurizio Cattelan in un’intervista a Francesca Bonazzoli apparsa sul «Corriere della Sera» di martedì 3 febbraio (in occasione dell’apertura a Palazzo Reale della mostra Futurismo 1909-2009. Velocità + Arte + Azione), il tempio del mercato, ora che è crollato, vi saranno finalmente artisti più coraggiosi. E dopo il protagonismo delle case d’asta e dei curatori è arrivato il momento giusto per gli artisti di prendere posizione: «Da troppo tempo gli artisti producono e non dicono.» Quello che bisogna evitare è che l’arte ideologica diventi didascalica, quindi, come ha osservato anche Celant, bisogna evitare che le opere diventino propaganda.

Carolyn Christov-Bakargiev, direttore artistico della XIII edizione di Documenta a Kassel (2012) ha sottolineato quanto oggi sia necessario imparare ad orientarsi fra differenze e complessità senza perdere la possibilità di agire, sapendo però allontanarsi da una circolarità del mondo dell’arte che può diventare, e per forza di cose diventa se non sa e non può allargare i propri orizzonti, passività.

L’esperienza dell’arte è e deve essere attiva e le opere devono essere autonome. Si va verso quello che non si capisce. Il già capito è passato o si è già trasformato in altro. Anche per Carolyn entra in campo la parola coraggio che si sposa con la parola arte e artista, perché non si deve avere paura di collegare la cosiddetta cultura alta con la cultura bassa, in un momento in cui, per effetto della globalizzazione, l’arte è ovunque. Non si deve sentire tanto la necessità di uno spirito del tempo (Zeitgeist), ma piuttosto la necessità di un atteggiamento cosciente e responsabile, perché tutto non sia solo intrattenimento. Attraverso un’emancipazione personale, bisogna giungere a considerare l’aspetto sociale. Come Joseph Beuys, bisogna credere negli uomini e nell’energia creativa: «L’unica forza rivoluzionaria è la forza della creatività umana.»

Quello che più mi colpisce è che proprio nell’era della simultaneità, più che della velocità, si rischi paradossalmente un arresto e una visione stereotipata di un’immagine costruita a priori per esigenze ideologiche o di mercato. Non tutto è relativo, esistono valori ai quali si sta ritornando e che rappresentano i nuovi punti di riferimento; qualunque cosa creativa verrà da dove ci sono motivazioni.

Come scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo?: «Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? … Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.»

Ma bisogna prima comprendere che cosa significa «vedere una tenebra», «percepire il buio». Non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare.

L’astrofisica contemporanea da una spiegazione del buio; quel che percepiamo come il buio è in realtà luce che viaggia velocissima verso di noi e che tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce. Anche per Agamben essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio; il coraggio di percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo.

venerdì 23 gennaio 2009

Arte come esistenza:
storia della biografia artistica

Il nostro sguardo non è mai vergine: anzi, gli studiosi della percezione ci hanno insegnato che esso è sempre condizionato da un insieme di fattori psichici o culturali. Tanto meno è vergine uno sguardo estremamente complesso come quello artistico: vediamo ciò che abbiamo appreso a vedere e come abbiamo appreso a vedere. Oltre che animali sociali (o, meglio, proprio in quanto animali sociali), siamo anche animali gravidi di storia, abituati a valutare il nuovo in base al vecchio, il presente in base al passato di cui abbiamo esperienza.

In un’ipotetica storia della percezione estetica, un ruolo di primo piano nell’orientare la vista degli appassionati d’arte lo ha assolto per lungo tempo la biografia artistica. Alla metamorfosi di questo importante quanto ibrido genere letterario è dedicato il bel volume Art as Existence. The Artist’s Monograph and Its Project di Gabriele Guercio.

Lo studioso indaga in modo persuasivo le traiettorie «formali e concettuali» della biografia artistica dalle sue origini cinquecentesche (fissate dalle Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani di Giorgio Vasari) al suo apogeo nell’Ottocento fino al declino novecentesco. E lo fa adottando una pluralità di strumenti critici che trovano la loro sintesi in un approccio che potremmo definire genetico-generazionale: una volta identificate le caratteristiche fondamentali dell’archetipo rappresentato dal trattato di Vasari, ne vengono indagate le successive variazioni e articolazioni.

L’approccio è fertile, perché è vero che la biografia è un genere quanto mai aperto, che può assumere peculiarità differenti: mirare a una ricostruzione scrupolosa e puntuale o avventurarsi nelle interpretazioni poetico-romanzeche, privilegiare la dimensione storico-artistica o indulgere nelle ipotesi psicologiche, enfatizzare gli apporti derivativi (dai capolavori dell’età classica, dagli insegnamenti appresi a bottega, dalle opere dei contemporanei) o esaltare l’individualità irriducibile... Ma è pur vero che la biografia conserva pur sempre un suo nocciolo stabile e imprescindibile, senza il quale essa diventa qualcosa di sostanzialmente altro (monografia critica, storia dell’arte, storia delle forme e del linguaggio artistico, ecc.).

Per quanto tautologico possa sembrare, la biografia artistica rimane infatti storia della vita di un uomo, meritevole di essere ricostruita e raccontata in virtù di quello che costui ha fatto e ci ha lasciato. Guercio dice bene quando afferma che c’è un «progetto nascosto» dietro il genere biografico, ed è l’impulso a trasformare la vita in arte e l’arte in vita. Potremmo anche aggiungere che la biografia, oltre a presentarsi essenzialmente come “prologo” all’arte (come si potrebbe dire parafrasando Borges), e cioè come strumento per facilitare l’approccio dei lettori alle immagini studiate, assolve tradizionalmente anche un compito esemplificativo: propone alla comunità culturale (usiamo questa espressione con significato quasi analogo a quello abituale di comunità scientifica) un modello esemplare da eguagliare per le qualità artistiche che lo elevano al rango dell’eccellenza (ricordiamolo: Vasari non ci racconta la vita di «architetti, pittori, et scultori» qualunque, ma solo, appunto, de’ più eccellenti). Precisiamo anche che per la tradizione classicistica eguagliare non significa imitare pedissequamente bensì elevarsi al rango del modello.

La questione è fondamentale, perché la storia della biografia artistica coincide con la storia del classicismo letterario (con il quale pure, sul piano del linguaggio, ha avuto spesso rapporti contrastati), e con il tentativo di accreditare una diversa immagine di umanità che riscatti le qualità tecniche del fare: un valore greco prima che protestante (la poiesis è appunto fare in senso tecnico). Ma soprattutto va osservato che prima del Cinquecento a prevalere erano stati due sottogeneri della biografia: quello che racconta le imprese memorabili degli uomini politici o dei grandi condottieri, e quella che racconta i miracoli o il sacrificio degli uomini di religione.

La biografia artistica introduce un nuovo soggetto di narrazione, appunto la vita dell’artista (pittore, scultore, architetto), e una nuova concezione di eccellenza, conseguibile all’interno dei normali confini della quotidianità prosastica, già culturalmente borghese. E ciò aiuta a spiegare non solo la modernità di questo genere ma anche il duraturo successo di cui esso ha goduto fin da subito. Rispetto ai precedenti politico-militari e religiosi la biografia conserva tuttavia un fattore di profonda consonanza: e cioè la metafisica che la sorregge e che giustifica la ricerca ricostruttiva. Si può infatti scrivere una biografia solo se si ha la certezza di poter ricostruire il senso del destino di un uomo: e cioè rimettere ordine nel magma dell’esistenza individuale riconoscendovi a posteriori una direzione, una vocazione.

La storia della biografia (e a maggior ragione del suo declino) coincide anche con la storia della messa in discussione di questa metafisica, drasticamente revocata in dubbio nell’Otto-Novecento: per la tendenza fondamentale del nostro tempo, difatti, nessun destino è concepibile, perché il destino sarebbe d’ostacolo al divenire (e quindi alla libertà assoluta degli uomini), che è alla base della nostra visione dell’esistenza (cioè del contemporaneo credo).

Gabriele Guercio
Art as Existence.
The Artist’s Monograph and Its Project

MIT Press
pp. 378, € 52,80

lunedì 12 gennaio 2009

L'amore comico

In una delle tante lettere anonime indirizzate a Mme Sabatier, donna di opulenta bellezza adorata allora da letterati, artisti e potenti parigini, Charles Baudelaire si domanda: «Non c’è forse qualcosa di essenzialmente comico nell’amore?» La frase, riportata da Roberto Calasso in La folie Baudelaire, rimane enigmatica. Baudelaire non precisa che cosa intendesse, lascia cadere con naturalezza questa verità come risaputa.

A colpire è soprattutto quell’avverbio: essenzialmente. Un termine familiare a chi si interessa di filosofia. L’avverbio è riferito all’aggettivo (comico) non al sostantivo (amore): vuol dire che nell’amore c’è qualcosa che è comico in sé, nella sua essenza.

Ma è chiaro che Baudelaire qui si riferisce pure all’essenza dell’amore: cioè nell’essenza dell’amore (l’amore in quanto tale) c’è qualcosa che è comico nella sua essenza (qualcosa che è comico in quanto tale). Questo significa che la comicità dell’amore trascende tanto il tempo (l’evoluzione dei costumi) quanto la nostra individualità. Il carattere comico dell’amore è cioè comune a ogni esperienza amorosa, indipendentemente dal tempo, dal luogo, dal modo particolare in cui la viviamo e dalla particolare coscienza che abbiamo dei nostri sentimenti. A tale carattere comico non possiamo dunque sfuggire, in quanto esso appartiene all’amore stesso.

Ma cosa c’è di essenzialmente comico nell’essenza dell’amore? Baudelaire non lo dice. Proviamo noi ad abbozzare qualche ipotesi. Abbiamo chiesto a un gruppo di amici di offrirci un commento, e ne abbiamo aggiunto qualcuno nostro. Naturalmente l’elenco è aperto, e chiunque può integrarlo.

■ Per amore diventiamo una caricatura di noi stessi, ma con l’attenuante di una nota tenera che rende il tutto comico e ci permette di sorridere. (Susanna)

■ Forse, piacevolmente rintontisce. Ma se si percepisce l’aspetto ridicolo, forse vuol anche dire che l’amore sta facendo le valigie ed è pronto a partire. (Bruno)

■ Assolutamente no. È una cosa intima. (Bussi)

■ Qualcosa di comico nell’amore? Sì, ma solo per il terzo che guarda. (Renzo)

■ Direi che è importante, nella domanda di Baudelaire, il forse. Quello che dà speranza una volta che hai recepito l’inevitabile aspetto comico. (Susanna)

■ Fin dall’inizio è maschera, e quella comica è la premessa dell’amore come Eros nel Simposio di Platone. Segue l’ubriacatura... (Massimiliano)

■ L’amore rivela, apre gli occhi. Se lo si interpreta al meglio tutto può avvenire con un sorriso. Una questione di giuste distanze utili per sempre. (Marta)

■ Non c’è forse qualcosa di tragicamente comico in tutto ciò che è la vita stessa? (Edoardo)

■ Sì, soltanto a condizione di riferirsi all’amore di coppia, carnale, passionale in senso materiale, sessuale. No, invece, per quello universale, non egoistico, direi sociale, per il quale non vedo spazio per alcuna vis comica. (Francesco A.)

■ Essenzialmente nudi, l’amore ci rende per forza di cose anche comici. Tutti. Questo è imbarazzante ma anche consolante. Tutti, la parola chiave per ridere. Anche noi, prima o poi, potremo ridere dell’amore. (Susanna)

■ Perché l’amore è essenzialmente comico? Perché fa fessi e contenti. (Anonimo parmenideo)

■ L’amore uccide, la comicità salva. (Vetra)

■ Mi viene in mente qualcosa che avevo letto, forse di Severino. Diceva che amore e comico si tengono equidistanti dal divino, l’uno impossibilitato a tornarci seppur desideroso, l’altro impossibilitato a sfuggirne seppur con smorfia di derisione, che rimane comunque paura. (Lorenzo)

■ Di essenzialmente comico nell’amore c’è solo un buon senso del ridicolo. (Susanna)

■ Ci vediamo come siamo, amando. Sempre mancanti e inadeguati. Meglio sorridere! (Giulia)

■ L’amore rende ciechi per troppo vedere. Giusto imbarazzo che sfocia, nel migliore dei casi, nella comicità. (Irene)

Tragicamente comico. Essenzialmente tragicomico. (Maria Giovanna)

Riguardo all’amore ho sempre pensato il contrario: che sia essenzialmente tragico... è vero però che comico e tragico sono collegati in modo probabilmente indissolubile. (Francesco I.)

Nell’amore non c’è nulla di comico quando lo vivi di prima persona. Magari se si raccontano dei propri drammi amorosi ad un amico, forse lui può trovarci del comico perché a volte quando si ama ci si comporta in maniera ridicola. (Milagros)

■ Il comico è in realtà un grande alleato dell’amore, perché ci fa intenerire dei limiti altrui che diversamente potrebbero disturbarci. (Guido)

lunedì 5 gennaio 2009

Otto punti sul Medio Oriente

Fermare Hamas, esigere da Israele il cessate il fuoco. Potrebbe essere questo (o uno simile) il titolo di un serio appello, che tenti di unire le forze riformiste del centrosinistra e del centrodestra. (Pur scritte in un momento in cui le informazioni s’accavallano in modo spesso contraddittorio lasciando inevitabilmente molti spazi oscuri, le note che seguono provano a partire dalla cronaca per individuare alcune provvisorie linee guida da offrire al dibattito per una tregua duratura).

1) Su Hamas ricade la responsabilità del conflitto in corso. Ma il proseguimento delle operazioni di terra da parte di Israele rischia di accrescere l’odio e di rendere più difficile il processo di pace. Israele ha già colpito un gran numero di obiettivi e ha ridotto duramente le capacità di aggressione di Hamas. Ora può fermarsi, e deve farlo in tempo. Deve cioè resistere alla tentazione di stravincere, di annientare l’avversario, per non rischiare di passare dalla parte del torto e perdere il consenso dell’opinione pubblica internazionale.

2) Ha il dovere di farlo anche perché il proseguimento delle operazioni di terra renderebbe più problematica la posizione degli arabi moderati e più arduo il loro compito nel tenere a freno il radicalismo interno. Abu Mazen ha più volte messo in guardia Hamas dai pericoli che correva nel rompere la tregua e ne ha riconosciuto le responsabilità nel dare avvio al conflitto. è comprensibile che oggi corregga parzialmente le sue posizioni: è una misura cautelativa necessaria per non attirare su di sé e su al-Fatah il risentimento interno. Ma questo cambiamento di tattica è una spia dei danni che il conflitto può provocare, indebolendo le forze più disponibili al dialogo. Lavorare per una tregua duratura vuol dire fare l’impossibile per riaprire il confronto con le fasce moderate del popolo palestinese e più in generale del mondo arabo. Senza un confronto e un accordo con esse, non può esserci alcuna pace duratura.

3) Israele ha il diritto di difendersi. Ma il governo di Israele dovrebbe chiedersi se la prolungata operazione bellica non finisca col fare gli interessi del network del terrore. Per alcuni anni, Israele ha condotto una serie di azioni mirate volte a colpire i massimi leader di Hamas fra i quali, nel marzo 2004, lo sceicco Yassin. Tali azioni hanno inferto, nell’immediato, un duro colpo all’organizzazione. Ma le hanno anche fornito un potente strumento di propaganda che nel gennaio 2006 ha contribuito alla vittoria elettorale di Hamas. La guerra in corso oggi non rischia di produrre effetti ancora più disastrosi?

4) è comprensibile che Israele si impegni per il mantenimento di una disparità di forze rispetto ai suoi vicini. è uno Stato democratico e liberale che in passato si è trovato circondato da Stati nemici e nel presente (dopo i trattati di pace stipulati con Egitto e Giordania) si trova nel mirino del radicalismo e del terrorismo. Nessuno può impedirgli di cautelarsi. Ma, a maggior ragione, uno Stato democratico e liberale ha il dovere di usare la propria forza in modo ragionevole, cioè proporzionato ai fini difensivi.

5) Non siamo più all’Intifada. Hamas dispone di un vero e proprio esercito, sia pure composto di guerriglieri mischiati alla popolazione civile. La logica di molti suoi capi tuttavia rimane quella del terrore: si basa sulla strategia della tensione, sulla vocazione al martirio. Hamas (come Hezbollah, come al Qaeda, come parte dell’Iran) può solo fantasticare di eliminare Israele e tutti gli ebrei dalla faccia della Terra. Non ha i mezzi per farlo. Può essere invece seriamente tentata di trasformare la Palestina in uno Stato kamikaze, cioè di trascinare i suoi abitanti in un immane bagno di sangue nel tentativo di scatenare una reazione a catena fra gli Stati arabi e nella popolazione araba in Occidente.

6) Gli arabi moderati sono perfettamente coscienti di questo pericolo. Sanno che, insieme a Israele e agli USA, loro sono il primo obiettivo del network del terrore (in proposito Bin Laden è stato più volte esplicito). Ciò significa che gli arabi moderati hanno tutto l’interesse a combattere il radicalismo nei propri confini. E questo è anche l’interesse dei moderati palestinesi. Ma è compito di Israele e dell’Occidente consentire ai moderati palestinesi di disporre dei mezzi per combattere il radicalismo.

7) In sostanza, Israele e l’Occidente si dovrebbero chiedere senza pregiudizi se non sia opportuno riconoscere all’ANP il diritto a disporre di un esercito regolare, sia pure sotto la supervisione della comunità internazionale. Lasciare il monopolio della forza ad Hamas non si è dimostrata una cosa saggia.

8) Durante la guerra dei Sei Giorni, USA e URSS intervennero con prontezza sulle rispettive sfere di influenza per evitare le possibili degenerazioni. Nessuno ha nostalgia del duopolio della Guerra Fredda. Ma, oggi, le istituzioni della comunità internazionale (come già è avvenuto nelle ultime precedenti guerre) danno prova di grande fatica nell’assolvere quella funzione di garante dell’ordine internazionale che un tempo il duopolio USA-URSS esercitava secondo i metodi tradizionali dell’equilibrio delle potenze. Questo è molto preoccupante, perché accresce il senso di tensione e perché incoraggia gli Stati (non solo del Medio Oriente) a regolare i propri conflitti autonomamente. Nonostante tutte le divisioni interne di origine storica, la UE dovrebbe avere interesse a ricercare una coesione di intenti in modo da esercitare una più forte pressione sull’ONU e impedire che le grandi scelte che riguardano il pianeta sfuggano alla logica del confronto democratico.

mercoledì 26 novembre 2008

L’utopia laica: storia di una sconfitta

Partiamo dal fondo. Tracciando un quadro riassuntivo delle tendenze politiche degli ultimi due decenni in Italia, nel capitolo conclusivo di Storia dei laici Massimo Teodori scrive: «Fino agli anni Ottanta, le forze laiche valevano ancora un quarto dell’elettorato italiano mentre, dopo Tangentopoli, precipitarono a poco più del 5% del consenso nazionale.» E, più risolutamente: «In Parlamento non sono mai stati approvati tanti provvedimenti illiberali e non furono mai ostacolate tante leggi liberali come nella Seconda repubblica.»

Siamo agli antipodi dell’agiografia intellettuale. Quella che, dall’interno, Teodori ci racconta è la storia di una sconfitta. Non solo nel nostro Paese il laicismo è sempre stato minoranza e, dopo la fine del totalitarismo fascista (a cui pure ha contribuito in modo decisivo), non è riuscito a candidarsi a governare il processo di modernizzazione. Addirittura, nel momento in cui è venuto meno uno dei suoi antagonisti storici – il totalitarismo comunista –, ha perso l’occasione che gli si presentava, assistendo inerte alla progressiva erosione del proprio margine di consenso.

Il sofferto atto d’accusa che proviene dal libro è, insomma, forte. Impossibile fraintendere. I molti personaggi che affollano questo «romanzo di idee» (come lo ha efficacemente chiamato Filippo La Porta) sono tutto fuorché dei santini. Assomigliano piuttosto a «pazzi malinconici» (per usare una definizione di Gaetano Salvemini, ricordata dall’autore): intellettuali eretici e irregolari, sorretti da una poderosa tensione utopica e, nondimeno, incapaci di trovare un accordo per organizzare in maniera efficace la propria azione politica.

Teodori ripercorre la traiettoria di questi uomini, grandi e perdenti, con il rigore dello storico, e insieme con la passione del militante che, pur prendendo atto della sconfitta, non si abbandona alla rassegnazione. Lo scopo del libro è duplice. Da una parte, fare giustizia colmando il vuoto bibliografico che ha accompagnato questa tradizione e riconoscendone criticamente l’importanza fondamentale nella storia delle idee. Dall’altra, sollecitare un ampio e spregiudicato dibattito politico-intellettuale, che consenta di recuperare quanto di vivo quella tradizione ancora possiede e riproporre una prospettiva laica in Italia.

Non avendo specifiche competenze storiche, è proprio su questo terreno più teorico che vogliamo intervenire, e lo facciamo anche noi dall’interno (chi stende queste note ha avuto una formazione liberalsocialista e, pur essendo consapevole del carattere minoritario del socialismo liberale, continua a credere che i suoi strumenti analitici siano tuttora utili per comprendere il tempo presente).

Dunque, la sconfitta del laicismo. Quali ne sono le cause? Teodori le riconduce, coerentemente ai suoi presupposti, a circostanze storiche. L’esempio più stringente lo offre il resoconto delle divisioni in seno al Partito d’Azione dopo la Liberazione, che ne hanno determinato il rapido declino. Ma ci si può chiedere se, al di là delle circostanze storiche o degli errori umani, non abbiano agito cause più profonde, di tipo metapolitico (ci si passi il termine).

In sostanza. Tutte le molteplici correnti del laicismo hanno due fattori in comune: sono figlie del liberalismo e sono figlie del razionalismo sette-ottocentesco. Anche i movimenti laici nati nel secondo dopoguerra (il partito radicale) affondano le radici in una cultura precedente all’avvento della società di massa, e non hanno mai dimostrato di capirne appieno la realtà e i bisogni. (Del resto, non è un caso che, così come mancano studi complessivi «sul mondo laico e antitotalitario» che «vadano al di là delle monografie su singoli aspetti della nostra storia», come osserva Teodori in apertura al suo libro, allo stesso modo manchino anche studi riassuntivi sulla società di massa che non siano viziati da preclusioni ideologiche.)

In un vecchio libro sull’utopismo di Adriano Olivetti (Fini e fine della politica, scritto in collaborazione con Giulio Sapelli), Roberto Chiarini osservava che fra le ragioni del fallimento del movimento di Comunità va registrata anche la mancanza di un adeguato bagaglio di simboli in grado di competere con le parole d’ordine a forte impatto sociale dell’immaginario democristiano e comunista. Ma questa diagnosi la si potrebbe estendere a tutta la tradizione laica: liberale, liberaldemocratica, socialdemocratica, socialista riformista, liberalsocialista, azionista, radicale…

Qui, non si vuole ignorare il forte pathos attivistico che alimenta fin dalle sue origini questa tradizione. E tanto meno si vogliono ignorare i numerosi appelli a un liberalismo di massa, che si sono succeduti nel XX secolo. Ma, anche nella sua versione più “aperta” e operaista (quella di Gobetti), tale pathos si è espresso tutt’al più in un’andata verso il popolo, mai davvero verso le masse. Il laicismo rimane un fenomeno aristocratico, condiviso essenzialmente dalle élite intellettuali.

Sono piuttosto i totalitarismi (quello fascista, quello nazista, quello sovietico, quello clericale, quello odierno della Tecnica: e qui rimando a Heidegger e a Severino) ad aver intuito l’importanza delle masse e ad aver saputo trovare il linguaggio adatto a conquistarne il consenso. Un laicismo che non si rassegni a una posizione subalterna alle culture uscite vittoriose dai conflitti della modernità ha l’obbligo di riaprire senza pregiudizi il dialogo con le masse. Per dirla in modo molto spiccio, andare a scuola dagli ex DC e dagli ex PCI.

Ma c’è un altro punto che andrebbe sottolineato. Il liberalismo – che è premessa imprescindibile del laicismo politico (il secondo non esiste in assenza del primo) – ha esercitato la sua più autentica funzione storica anzitutto nell’ambito delle regole. L’importanza delle regole è la principale eredità che il liberalismo ci ha lasciato. Noi siamo liberi da tutto e siamo liberi di fare tutto, ma non siamo liberi dalla legge e non siamo liberi di infrangere la legge. La Legge è l’unico dio in Terra a cui il liberalismo riconosca il diritto di disciplinare la nostra vita collettiva. In questo senso, il liberalismo si colloca al di fuori della competizione politica: non è né di destra né di sinistra. Si preoccupa di definire anzitutto i confini entro i quali la competizione può svolgersi.

Su questo fronte, il liberalismo è stato persuasivo: la democrazia oggi è, per opinione condivisa, liberaldemocratica. Mentre le democrazie popolari sono sempre più viste come dittature mascherate, e questo non solo in Occidente. Certo, esiste pur sempre la possibilità che l’elettorato consideri le regole un “valore” secondario rispetto ad altre priorità e sia disposto a sacrificarle sull’altare di quest’ultime (la sicurezza, il benessere economico, la garanzia dell’occupazione…). I liberali, perciò, hanno il dovere di vigilare affinché le maggioranze non facciano demagogicamente perno sulle paure invalse per ridurre a proprio vantaggio i confini delle libertà.

Ma i liberali (a maggior ragione i liberali socialisti, i liberali di sinistra) renderebbero un modesto servigio se si limitassero ad assolvere questa funzione. Se vogliono riacquistare consenso, devono anche riuscire a dimostrare che il liberalismo è in grado di rispondere alle domande provenienti dalla moderna società di massa, la quale non è più la società opulenta di cui parlava Galbraith alla fine degli anni Cinquanta. Piuttosto è una società che ha una rabbiosa nostalgia di quell’opulenza e che, a ragione o a torto, intende difendere a denti stretti i privilegi che conserva (sempre più ridotti, ma ancora enormi rispetto alla situazione comune alla maggior parte dei Paesi del pianeta) dalle pressioni provenienti dalle folle dell’Est e del Sud che aspirano a sedersi a loro volta al banchetto dei ricchi.

È sempre possibile che le maggioranze sfruttino le grandi crisi economiche per ridurre i margini di libertà, mascherando gli interessi di parte dietro lo schermo del populismo. Ma è anche possibile che tali crisi, come le guerre e le carestie di Malthus, finiscano alla lunga col fare bene all’ecosistema (umano se non ambientale) e col porgere alle forze progressiste un’occasione per ridisegnare in modo più avanzato le linee guida del gioco politico.


Massimo Teodori
Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista
MARSILIO
pp. 363, € 19,50


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