domenica 8 febbraio 2009

Che cos’è l’arte contemporanea?

di Susanna Janina Baumgartner

Un ciclo di incontri sull’arte contemporanea, dal titolo Che cos’è l’arte contemporanea, ha portato un vasto pubblico al PAC grazie alla collaborazione fra Assessorato alla Cultura di Milano e ACACIA – Associazione Amici Arte Contemporanea.

I quattro appuntamenti (il prossimo e ultimo si terrà il 17 febbraio) hanno avuto inizio il 13 gennaio con l’attesissimo critico e storico dell’arte Germano Celant che ha dato una possibile visione “apocalittica” di un’arte senza scampo. Un’arte che vede nel mantenimento del soggettivo e di un’estrema individualità la possibilità di un’offerta e quindi di un progetto che possa essere anche veicolo di positività nel creare relazioni, ma che si trova poi a essere promozione turistica e coloniale di mondi vergini, come ad esempio i deserti arabi, diventando quindi un mezzo per esaltare nuovi centri di potere.

Si creano quindi musei grandiosi che diventano luoghi di attrazione, consumo e seduzione, mentre le opere diventano cartoline rappresentative del prestigio di una città per un’arte che sia funzionale come la moda. Persino il Vaticano, conscio del potere propagandistico dell’arte, ha deciso di proporre, per la biennale del 2011, opere di Anish Kapoor e Bill Viola; così come gli sceicchi che coniugano anche per l’arte fede e potere.

Vi è un procedere omogeneo da nord a sud e da est a ovest. La preoccupazione di Celant, rispetto alle istituzioni che desiderano occuparsi dell’arte, è che vi siano operazioni commerciali di cattiva qualità. La scelta delle opere andrebbe sempre fatta con specialisti qualificati e con la preziosa collaborazione di galleristi e collezionisti.

Se prima vi era, come ha detto Maurizio Cattelan in un’intervista a Francesca Bonazzoli apparsa sul «Corriere della Sera» di martedì 3 febbraio (in occasione dell’apertura a Palazzo Reale della mostra Futurismo 1909-2009. Velocità + Arte + Azione), il tempio del mercato, ora che è crollato, vi saranno finalmente artisti più coraggiosi. E dopo il protagonismo delle case d’asta e dei curatori è arrivato il momento giusto per gli artisti di prendere posizione: «Da troppo tempo gli artisti producono e non dicono.» Quello che bisogna evitare è che l’arte ideologica diventi didascalica, quindi, come ha osservato anche Celant, bisogna evitare che le opere diventino propaganda.

Carolyn Christov-Bakargiev, direttore artistico della XIII edizione di Documenta a Kassel (2012) ha sottolineato quanto oggi sia necessario imparare ad orientarsi fra differenze e complessità senza perdere la possibilità di agire, sapendo però allontanarsi da una circolarità del mondo dell’arte che può diventare, e per forza di cose diventa se non sa e non può allargare i propri orizzonti, passività.

L’esperienza dell’arte è e deve essere attiva e le opere devono essere autonome. Si va verso quello che non si capisce. Il già capito è passato o si è già trasformato in altro. Anche per Carolyn entra in campo la parola coraggio che si sposa con la parola arte e artista, perché non si deve avere paura di collegare la cosiddetta cultura alta con la cultura bassa, in un momento in cui, per effetto della globalizzazione, l’arte è ovunque. Non si deve sentire tanto la necessità di uno spirito del tempo (Zeitgeist), ma piuttosto la necessità di un atteggiamento cosciente e responsabile, perché tutto non sia solo intrattenimento. Attraverso un’emancipazione personale, bisogna giungere a considerare l’aspetto sociale. Come Joseph Beuys, bisogna credere negli uomini e nell’energia creativa: «L’unica forza rivoluzionaria è la forza della creatività umana.»

Quello che più mi colpisce è che proprio nell’era della simultaneità, più che della velocità, si rischi paradossalmente un arresto e una visione stereotipata di un’immagine costruita a priori per esigenze ideologiche o di mercato. Non tutto è relativo, esistono valori ai quali si sta ritornando e che rappresentano i nuovi punti di riferimento; qualunque cosa creativa verrà da dove ci sono motivazioni.

Come scrive Giorgio Agamben in Che cos’è il contemporaneo?: «Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo? … Contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio. Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente.»

Ma bisogna prima comprendere che cosa significa «vedere una tenebra», «percepire il buio». Non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare.

L’astrofisica contemporanea da una spiegazione del buio; quel che percepiamo come il buio è in realtà luce che viaggia velocissima verso di noi e che tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce. Anche per Agamben essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio; il coraggio di percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo.

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