Quando, dopo l’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush varò una serie di misure antiterrorismo che limitavano le libertà individuali, espressi il mio dissenso sul settimanale per il quale allora lavoravo. Ma capivo il senso di quelle scelte. Devo confessare invece che, in questi giorni, seguendo la polemica sul diritto alla sicurezza che occupa le prime pagine dei giornali italiani, mi è difficile capire di che cosa si parli in concreto e soprattutto quali scopi si intendano perseguire. Mi sembra, quanto meno, che si sovrappongano con una certa disinvoltura tre problemi attigui ma distinti: quello dei rom, non integrabili o difficilmente integrabili; quello degli immigrati dell’est, potenzialmente integrabili; e quello della microcriminalità in generale.
Esiste un’emergenza come quella che dovette affrontare Bush? Nient’affatto. Questi sono gli ordinari problemi che uno Stato deve affrontare di volta in volta, sapendo che potrà tutt’al più ridurli ma mai risolverli una volta per sempre. A meno di voler fare come lo Stato fascista che, per dare l’impressione di aver riportato l’ordine nel Paese, pensò bene di censurare le pagine di cronaca nera dei quotidiani e di impedire che i romanzi polizieschi avessero protagonisti italiani.
Forse è vero che dalla società italiana proviene una «domanda di sicurezza». E capisco che a Fini & Co. non paia vero di poter cogliere un’occasione per rafforzare a poco prezzo il loro consenso elettorale. Ma converrebbe fermarsi a riflettere su che cosa vuol dire realmente quella domanda. Finora mi sembra che la discussione si sia concentrata tutta sugli stranieri. Vuol dire che l’opinione pubblica chiede di cacciare gli immigrati? Anche quelli della UE, come sono i rumeni? In tal caso, il governo rischia di far propria una presa di posizione mistificante. È comodo pensare che il problema della sicurezza si riduca essenzialmente al problema dell’immigrazione. Ma non è così.
Per rendersene conto, e per non scostarsi troppo dall’attualità (la violenza alle donne), basta andare a rileggersi l’indagine Istat presentata a Palazzo Chigi lo scorso 21 febbraio. Da quei dati risulta che la maggioranza degli stupri e delle violenze a danno delle donne italiane (ben il 69,7%) deriva da partner o ex-partner. I fatti di Tor di Quinto rappresentano l’eccezione, non la regola. Per punire reati di tale genere abbiamo già le leggi. Non si capisce perché non debbano bastare le consuete vie giudiziarie che, in uno Stato liberal-democratico, reprimono a posteriori il responsabile del delitto, senza invocare una preventiva nemesi etnica, che il diritto contemporaneo non può ammettere. «Giustizia senza vendetta» o vuol dire questo o non vuol dire niente.
Semmai i dati Istat suggeriscono di ripensare il ruolo della famiglia o, almeno, di rimettere in discussione la falsa immagine, salvifica e aproblematica, che ne viene data. Forse è chiedere troppo. Ma se questo non lo fa la sinistra, chi altri lo può fare? D’altra parte, varrebbe la pena di chiedersi se è proprio vero che le minacce alla sicurezza hanno raggiunto, rispetto al passato, livelli insostenibili che oltrepassano il grado fisiologico di criminalità in uno Stato democratico. Se la risposta è positiva (cosa che io non credo), allora attribuire una maggiore licenza d’azione ai prefetti sarebbe il minimo.
Vogliamo dirlo? I diritti sono in conflitto fra loro: dare la priorità a uno vuol dire ridimensionarne un altro e viceversa. Si può difendere seriamente il diritto alla sicurezza solo limitando le libertà individuali, a cominciare dal diritto alla privacy. Così è avvenuto nell’America di Bush, così è avvenuto nell’Italia degli anni di piombo, quando esisteva una reale emergenza. Coloro che chiedono più sicurezza sarebbero disposti a rinunciare a una parte della loro libertà o pretendono che la magistratura indaghi solo sugli altri: gli alieni, i mostri, gli stranieri, i disgraziati, i poveri cristi? Naturalmente, né il governo di centrosinistra né l’opposizione di destra pretendono di arrivare a tal punto.
La nostra odierna classe politica non vuole scontentare nessuno: strizza l’occhio a quelli che chiedono il polso di ferro e, insieme, a quelli che reclamano maggiori libertà e più tolleranza. E non sceglie, non decide: cavalca l’emozione del momento. La destra non fa eccezione. Quando era al governo, si è dimostrata più severa verso l’immigrazione extracomunitaria, perché sensibile ai voti popolari dei quartieri periferici che la sinistra, ormai attenta solo ai ceti medi, ha abbandonato al proprio destino, ma ha messo i bastoni fra le ruote ai giudici, per venire incontro alle necessità della nicchia più spregiudicata del capitalismo italiano, ma di fatto ostacolando l’intero corso giudiziario. Per questo, ho il sospetto che si faccia tanto rumore per nulla.
Ma, personalmente, non sarei nemmeno sicuro che più integrazione, più lavoro e più giustizia sociale (i sacrosanti scopi tradizionali della sinistra illuminista) vogliano dire più coesione e quindi minori tensioni civili. La storia, purtroppo, non dà ragione all’illuminismo. Democrazia e libertà avvantaggiano l’onesto quanto il disonesto. L’unico strumento che abbiamo, per quanto debole, è il governo della legge. Non certo quello della demagogia.
martedì 6 novembre 2007
Tanto rumore per nulla
lunedì 5 novembre 2007
Il Galileo di Brecht
Appartengo a una generazione che per ragioni anagrafiche non ha fatto in tempo a vedere l’allestimento della Vita di Galileo di Giorgio Strehler con Tino Buazzelli. Questo mi ha permesso di apprezzare meglio l’odierna edizione (molto sfrondata rispetto all’originale) di Antonio Calenda, con l’ottimo Franco Branciaroli: certamente, uno dei grandi avvenimenti culturali di quest’anno. D’altra parte, a Milano, nel teatro intitolato a Strehler (che rimane uno dei migliori per acustica e visibilità) è impossibile non avvertire un sovrappiù di emozione.
Il testo è uno di quelli teatralmente più ostici. Non solo per la sua complessità tematica. Ma anche perché è costruito, di fatto, intorno a un unico personaggio centrale, che richiede all’interprete un’abilità e una misura da mattatore, capace di affacciarsi sul tragicomico e di rimanervi in bilico, senza cadere al di là: l’insistenza sul cibo si trascina dietro il ricordo della commedia («mi piace mangiar bene, e di solito è quando mangio che mi vengono le buone idee»), ma lo trapianta nel dramma contemporaneo. Il rischio è quello di strafare o, viceversa, di appiattire le tante sfumature di questo antieroe.
Il punto di vista degli avversari di Galileo (il potere e l’opinione pubblica) non trova invece espressione in un antagonista a tutto tondo, dalla personalità corposa, come può essere Claudio, re di Danimarca, in Amleto (l’altro grande capolavoro del dubbio, sia pure di tutt’altra natura). Si frammenta piuttosto nelle battute di figure minori, schizzate in modo unidimensionale: la signora Sarti, interprete di un pragmatico quanto miope buonsenso; il procuratore dello Studio di Padova Priuli; il pavido filosofo («Signor Galilei, la verità può portarci chissà dove»), la vacua figlia Virginia, i cardinali, eccetera.
Di qui, l’ampio spazio riservato all’analisi di coscienza di questo Galileo che ha sì una visione netta e chiara di che cos’è scienza ma, come noto, è anche tormentato da profonde incertezze interiori rispetto alla sua umanità e al suo ruolo di intellettuale. La scelta di Calenda di far indossare a Branciaroli la giacca “cinese” di Brecht (gli altri personaggi, ad eccezione del felliniano cantastorie, sono in costume d’epoca) accentua forse troppo una simbologia già sovraccarica nel testo. In compenso, il regista sottolinea in maniera molto persuasiva questo esame di coscienza del protagonista, che in gran parte incrina la poetica brechtiana del teatro epico, e trascina nel suo campo magnetico anche le figure a lui più vicine, al punto che queste ultime sembrano quasi delle proiezioni della sua coscienza.
È certo infatti che la tormentata trasformazione del discepolo Andrea Sarti e dell’amico Sagredo (dalle certezze consolidate al dubbio) replica un’analoga e ancor più tormentata maturazione che lo stesso Galileo deve aver compiuto in un tempo precedente al dramma. Non potrebbe insistere tanto nell’affermare che la scienza vive solo nel dubbio, se egli stesso non avesse vissuto quel dubbio sulla propria pelle. Il suo sarcasmo ha l’aspetto dell’ironia socratica, e non a caso il suo destino è analogo a quello del filosofo greco, a cui lo unisce anche la consapevolezza di non sapere («Sono stupido io. Non capisco niente di niente. Perciò sono obbligato a turare i buchi della mia conoscenza»). E ciò, anche se a differenza di Socrate, sfugge al tragico destino: per debolezza o codardia, certo, ma anche perché l’età della tragedia è definitivamente tramontata insieme all’universo politico-sociale che l’ha prodotta. Il giudizio di Brecht (nonostante i diversi ripensamenti nel corso delle tre stesure) è tutt’altro che categorico: l’autore prende le distanze dal suo personaggio, ma gli riconosce quel realismo delle «mani sporche», che nel 1948 Jean-Paul Sartre fece proprio elevandolo a morale positiva, contrapposta al velleitarismo dell’utopia rivoluzionaria.
Ma che cosa conserva di attuale questo capolavoro della drammaturgia contemporanea? Certo, non il conflitto tra scienza e potere o scienza e Chiesa, che era già risolto ai tempi in cui Brecht scriveva (e che, coerentemente, Calenda ridimensiona). La scienza ha risolutamente vinto la sua battaglia. È vero che, nel dramma, Galileo ricorda di continuo il destino di sconfitta di Copernico e Bruno. Ma questi due intellettuali sono stati sconfitti soltanto sul piano umano. Se Galileo li può citare è perché le loro ipotesi sopravvivono e travalicano la loro esistenza personale (lui stesso, d'altronde, afferma che un’opera di scienza non può essere scritta da un uomo solo). Il potere ha la facoltà di reprimere gli uomini, non di arrestare lo sviluppo delle idee.
Quello che rimane attuale, secondo me, è piuttosto il conflitto tra verità e ideologia, che è un tema più ampio e problematico. Naturalmente, Galileo ha una concezione della verità scientifica prenovecentesca: per lui, ciò che è vero, contrapposto a ciò che si crede, è quello che si può vedere sperimentalmente con i propri occhi, attraverso l’ausilio di appropriati strumenti (il telescopio). A tal proposito, c’è una scena famosa, molto emblematica. Trasferitosi dalla Repubblica di Venezia alla corte dei Medici a Firenze, Galileo riceve nel suo studio un filosofo e un matematico, e li invita a guardare nel telescopio le nuove «stelle medicee», come le ha battezzate con furbizia. Il filosofo gli chiede prima la «cortesia di una disputa», in pieno stile medievale. Lo scienziato risponde: «Permettetemi un consiglio: cominciate col dare un’occhiata. Vi convincerete subito.» Ma i suoi interlocutori rifiutano ostinatamente, e dopo un’accesa discussione il matematico mette termine così alla discussione: «Se fossi sicuro di non irritarvi ancor più, mi permetterei di affacciare la possibilità che ciò che si vede attraverso l’occhiale sia ben diverso da ciò che è nel cielo.»
Siamo di fronte al contrasto più forte di tutto il dramma. Da una parte, c’è il punto di vista di Galileo che confida nell’autoevidenza della verità, che ha bisogno soltanto di essere guardata. Dall’altra, quella di chi, accecato dall’ideologia, rifiuta di guardare, ritenendo che se quanto vediamo è in contrasto con quel che dimostra l’auctoritas (in questo caso, Aristotele), allora vuol dire che i sensi ci traggono in inganno. Branciaroli sottolinea con un breve ma eloquente silenzio la reazione sbigottita di Galileo. È il silenzio di chi, dopo essersi illuso della forza della ragione umana, si accorge all’improvviso che è vano discorrere con i sordi.
Ma, forse, è anche il silenzio di chi, almeno per un istante, valuta la possibilità che gli avversari, nell'errore, abbiano tuttavia ragione. Galileo non conosce Nietzsche, non conosce Einstein, non conosce Max Planck. Ma Brecht sì, è cresciuto a pane e avanguardia. Sa molto più del suo personaggio. Sa che anche quella verità scientifica che Galileo pretende di ricostruire per mezzo di un telescopio è parziale e, a sua volta, mischiata all’ideologia. Sa che la scienza contemporanea ha rinunciato a parlare in termini di verità e di ragione: non ci garantisce più che le sue scoperte sono vere, si limita a dirci che sono probabili.
La scienza ha vinto la sua lotta con il potere. Ma è stata costretta a riconoscere di non essere di gran «vantaggio all'umanità». Si presenta, per sua stessa ammissione, debole, incapace di riscrivere il maestoso libro della physis. Concettualmente debole. Non ha più quella fiducia nel sapere e nella rigenerazione civile che il Galileo brechtiano continua a coltivare fino all’abiura, tende piuttosto a ridursi a tecnica e a confondersi con questa che è la sua più formidabile creatura. E ciò la espone alle manipolazioni che ben conosciamo. E che Brecht non poteva ignorare.
Vita di Galileo
di Bertolt Brecht
traduzione Emilio Castellani
regia Antonio Calenda
con Franco Branciaroli e (in ordine alfabetico) Lello Abate, Giancarlo Cortesi, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Lucia Ragni ● scene Pier Paolo Bisleri ● costumi Elena Mannini ● musiche Germano Mazzocchetti ● luci Gigi Saccomandi ● coproduzione Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati
giovedì 1 novembre 2007
Andersen e la democrazia
Nel suo commento del 18 ottobre, Greystoke ha scritto con efficacia metaforica: «Nelle stanze del Palazzo si respira un’aria di insicurezza. La maschera mediatica è ormai sgualcita, si è aperto uno squarcio nel cielo di carta del teatrino politico». Non credo che intendesse unirsi al coro di quanti sostengono che il governo Prodi (che pure, certo, non gode di buona salute) sia arrivato al capolinea. Conoscendo le sue simpatie pasoliniane, mi sembra più probabile che volesse richiamare l'attenzione sulla perdita di vitalità del nostro “sistema”: cioè il modello di democrazia e di organizzazione sociale che si è storicamente realizzato in Italia e in Occidente. Così intese, le sue parole suggeriscono alcuni spunti di riflessione.
1) Anzitutto, è utile precisare che un’aggiornata riflessione critica sulla democrazia e sul capitalismo non scaturisce, necessariamente, dal velleitarismo ideologico. È lecito dissentire da ogni nostalgia per i grandi Balzi in Avanti del passato recente e, nello stesso tempo, chiedersi se per caso il modello politico-sociale uscito vittorioso dalla Guerra Fredda non si porti dietro delle contraddizioni che rischiano di alterare o addirittura capovolgere i suoi scopi. Certo, si può osservare con soddisfazione che la democrazia è andata conquistando sempre più Stati al mondo: secondo il censimento della Freedom House, siamo passati dalle ventidue democrazie del 1950 alle attuali ottantacinque. Ma questa non dovrebbe essere una scusa per chiudere gli occhi di fronte ai mali congeniti alle democrazie dell'Occidente, a cominciare dall’inadeguatezza dei governi a contrastare l’anarchia finanziaria e dal cedimento della politica alle tentazioni della demagogia (una deviazione, quest'ultima, che di recente ha denunciato, sulle pagine del «Corriere della Sera», anche un liberale DOC come Giovanni Sartori).
2) Il re è nudo: si potrebbero sintetizzare così le parole di Greystoke. Anche nella fiaba di Andersen, tuttavia, non basta che il re sia nudo: è necessario che i sudditi ne prendano atto e che non si ostinino, per piaggeria o per paura, a negare l'evidenza di quel che sembra un'assurdità inconcepibile. Ma neppure la «voce dell’innocenza», che dice ciò che gli altri tacciono, è di per sé sufficiente. Perché, in assenza di alternative, i sudditi potrebbero convincersi che bisogna tenersi il re che è toccato in sorte, malgrado l’esibizione delle sue vergogne. E nemmeno la presenza di un’alternativa è in quanto tale sufficiente. È vero, come osserva Machiavelli, che «li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare», ma solo per accorgersi subito dopo di «avere peggiorato». La disillusione dell’esperienza storica potrebbe indurre i sudditi a ritenere che, a conti fatti, è preferibile un re nudo – ma di cui sono note le debolezze – a un’alternativa che promette molto ma della quale sono ignote le potenzialità negative. Lo scetticismo ha le sue buone ragioni, e sarebbe sbagliato liquidarlo snobbisticamente. Se vuole affermarsi, il nuovo che avanza (quando esiste) ha sempre l'obbligo di confrontarsi con la saggezza dell’esperienza consolidata. E sforzarsi di proporre una diversa e più fertile filosofia della storia.
3) Nella fiaba di Andersen (di argomento eminentemente politico), il re si espone nudo di fronte ai sudditi a causa della sua vanità: la passione per le stoffe e i vestiti. «Mentre di solito di un re si dice che è nella sala del Consiglio, di lui si diceva soltanto: “È nel vestibolo!”» Trascura, insomma, gli affari del governo a vantaggio dell’apparenza. Poiché le fiabe, come i miti, mettono in scena strutture profonde dell’anima e della società, che scavalcano i limiti temporali, non sarebbe troppo anacronistico leggervi una metafora della sudditanza al potere mediatico a cui si adeguano, per scelta o per forza, tutti i leader contemporanei (non solo italiani, non solo dell’Occidente).
4) Ma, a mio parere, è un altro il cancro che rischia di esaurire la nostra democrazia, e cioè la sua debolezza decisionale. Per sua natura, la democrazia è costretta a riconoscere (e disciplinare) un numero sempre crescente di diritti che, a loro volta, sono per definizione in conflitto tra loro. Con la conseguenza che i governi si trovano a dover affrontare un numero sempre maggiore di problemi (sconosciuti alle origini delle democrazie) e, allo stesso tempo, sono sempre meno nelle condizioni di governare, perché nell’era della globalizzazione i problemi maggiori sfuggono ai confini nazionali. Di qui, lo scandalo di un apparato di governo sempre più elefantesco e burocratizzato, al quale non corrisponde un’adeguata efficienza nell’azione.
5) Naturalmente, la complessità di tali questioni richiederebbe un approccio ben più approfondito. Qui, si vuole solo ricordare che, così come è esistito un socialismo reale che era l’opposto dell’ideale socialista ma nello stesso tempo ne portava alla luce le contraddizioni interne, analogamente esistono una democrazia e un capitalismo reali che hanno poco da spartire con quella democrazia e quel libero mercato immaginari le cui virtù sono universalmente e fin troppo acriticamente decantate. Ma la critica, se vuole essere tale, non può ammettere alcun principio sacro: nonostante la sua voce non sia mai quella dell’«innocenza» di cui parla Andersen, ha l’obbligo di mettere in discussione anche le materie più scabrose.
martedì 16 ottobre 2007
La guerra dei numeri
Ieri sera, a Porta a porta, Enrico Letta ha ripetuto la sua soddisfazione, e quella degli altri architetti del Partito democratico, per i 3 milioni e rotti di persone che domenica si sono recati a votare alle primarie per l’elezione del segretario e dell'assemblea costituente del nuovo partito. Andrea Ronchi, a sua volta, ha ribattuto ricordando le 500 mila persone che sabato hanno partecipato a Roma alla manifestazione di Alleanza nazionale. E Paolo Bonaiuti, di Forza Italia, ha fatto valere i 2 milioni accorsi il 2 dicembre scorso in piazza San Giovanni ad ascoltare Berlusconi.
Di fronte a queste cifre si ha l’impressione che l’Italia sia un esempio di salute pubblica che fa impallidire quella degli stati in cui la democrazia ha più antiche radici: Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti. Del resto, poche ore prime, a Otto e mezzo, Fassino aveva sottolineato che da noi la partecipazione politica è più alta che altrove (ed, evidentemente, oltre alle manifestazioni recenti, aveva in mente le elezioni politiche del 2006, che hanno visto un’affluenza alle urne dell’86 %, inusitata altrove).
Ma, in un blog seguito da poche persone e che non ha problemi di consenso, possiamo dire quello che per ragioni di opportunità si deve tacere in televisione e sulla stampa: dal punto di vista della democrazia, quei numeri significano poco. Sono il prodotto, anzi, di una battaglia politica drogata (diverso è il caso dei cinque milioni di lavoratori che si sono espressi nel referendum sul Protocollo in materia di welfare, come nel salotto di Vespa ha ricordato un Gavino Angius più realista degli altri, ma anche molto più sottotono).
Perché, nonostante il loro carattere altisonante, quelle cifre lasciano perplessi? Per due ragioni.
La prima è che il senso delle azioni che hanno portato a quei risultati è viziato dalle condizioni in cui si svolge la politica odierna, e cioè dall’eccessiva esposizione mediatica, dalla personalizzazione dei leader (ormai non più distinguibili dai vip dello spettacolo) e dall’insistita logica dell’emergenza a ogni costo. Quelle cifre testimoniano il successo di un grande spettacolo di massa. Ma il loro reale contenuto politico è assai modesto. Il governo non è più debole a causa delle manifestazioni di AN o di FI (lo è semmai per ragioni interne, dovute alla sua costituzione). E il 75 % dei voti raccolti da Veltroni dimostrano solo che le primarie sono uno strumento di facciata: il plebiscito non è un metodo della democrazia, lo avevamo scritto tutti quando nel marzo 2004 Putin stravinse le elezioni presidenziali in Russia con il 71,3 % dei voti. La democrazia esiste laddove c’è una reale competizione e non dove il risultato è scontato (non a caso, ai tempi della Guerra Fredda e della conventio ad excludendum ai danni del PCI, dicevamo che in Italia la democrazia era bloccata. Possibile che proprio coloro che hanno subito quella condizione lo abbiano dimenticato tanto facilmente?).
La seconda ragione è che questa battaglia per l’audience risponde a puri obiettivi tattici. Da una parte, serve alle holding partitiche a mantenere costantemente vivo il contatto con il loro “pubblico”, e per questo nel “discorso della politica” (come lo chiama Habermas) la funzione fàtica (quella che richiama l’attenzione dell’ascoltatore) rischia di prendere il sopravvento sulla funzione referenziale (ciò di cui si parla, le idee, i progetti, gli scopi). Dall’altra parte, serve a mandare un messaggio all’avversario e intimidirlo mostrandogli la propria forza: un modo, insomma, per esibire i muscoli. Entrambe queste manovre tattiche sono fondamentali per la politica, e non c’è da scandalizzarsi. Ma non sono affatto un segno di novità. Tutt’altro. E, soprattutto, non sono di per sé garanzia di buona amministrazione dello Stato.
venerdì 12 ottobre 2007
Il laburismo all’italiana
Sull’«Unità» del 7 ottobre, Piero Fassino è tornato a spiegare le ragioni che fanno del Partito democratico uno «strumento per cambiare la politica italiana» e «ridisegnare il sistema politico», superandone la «crescente frammentazione» (14 gruppi in Parlamento, 11 partiti al Governo). Il ragionamento, lucido ed equilibrato, mira a rassicurare gli scettici di sinistra, ribadendo che la nascita del PD non è «un’operazione burocratica di apparati o di ceto politico».
Su questo punto possiamo credergli. Del resto, da buon piemontese, Fassino è alieno ai toni trionfalistici, e ha una coscienza delle difficoltà e dei problemi del suo fronte politico che manca ad altri. Non a caso scrive, onestamente, che il PD ha la «possibilità» (cioè un'opportunità da cogliere e da "costruire", piuttosto che qualcosa di già certo) di essere il «primo partito italiano», rappresentando «oltre un terzo del corpo elettorale». Ma, soprattutto, insiste che il PD è uno «strumento» (usa ben quattro volte questa parola in una sessantina di righe): ovvero un mezzo che «donne e uomini» sono invitati a usare fin dalla sua fondazione, domenica prossima. Va bene, questa è una novità nel panorama politico italiano, diamogliene atto. Ma uno strumento non ha importanza di per sé, acquista valore soltanto in virtù degli scopi che ci si prefigge e in funzione dei quali viene messo in atto.
Ed è, per l’appunto, quando dovrebbe parlare degli scopi che Fassino risulta colpevolmente deludente. Il segretario DS evita infatti di approfondire la questione, preferendo piuttosto concentrarsi sulle conseguenze della nascita del nuovo partito, «un progetto che unisce» («in una politica segnata da divisioni, scissioni e separazioni») e che pertanto costringe anche le altre forze politiche a riflettere su nuove e più ampie forme di aggregazione. D’accordo. Ma cosa farà il PD? Quali compiti si porrà, una volta «ridisegnato» il sistema politico italiano e superata la frantumazione parlamentare?
La risposta arriva solo indirettamente e in modo molto sintetico. Il PD sarà quello che «tutti chiedono» (sic!): cioè «una grande forza progressista e riformista capace di tenere insieme modernità e diritti, innovazione e tutele, crescita economica e coesione sociale, meriti e bisogni, partecipazione e decisione». Evviva! Gli scopi sono questi. E ne saremmo contenti, se non fosse che sono scopi drammaticamente in contraddizione fra loro. Al di là della vaghezza di linguaggio, è chiaro infatti che Fassino vuole salvare capre e cavoli: da una parte, venire incontro alle esigenze del moderno capitalismo che chiede più duttilità e meno vincoli; dall’altra, garantire quella protezione sociale che rimane una necessità per la stragrande maggioranza degli italiani.
Questo vuol dire che il Partito democratico sarà il partito della sintesi, di marxiana memoria? Oppure sarà un partito ondeggiante e incapace di scegliere, come già sembra nella culla? Insomma, un ibrido. Un partito che mostra di avere tanta voglia di adeguarsi alle parole d’ordine del neoliberismo, che Tony Blair ha largamente sdoganato a sinistra e alle quali, del resto, i dirigenti ulivisti guardano con tacita simpatia fin dall’epoca dei governi D’Alema. Ma, nello stesso tempo, un partito che non se la sente di sacrificare quella morale solidaristica che ha ereditato dalla sua tradizione e si fa ancora tanti scrupoli di coscienza che, invece, il partito laburista britannico più cinicamente ignora, nonostante i ben più stretti legami sindacali.
Lo storico Eric Hobsbawm, una volta, definì Blair una «Thatcher in pantaloni». È quello il modello inconfessato e inconfessabile a cui il PD vorrebbe ispirarsi ma non può?
martedì 9 ottobre 2007
Antipolitica e antidemocrazia
I politici hanno l’obbligo di mostrare il lato buono del loro volto, e provare a suscitare entusiasmo in chi li ascolta o li legge. A modo suo ci prova anche Romano Prodi, il meno combattivo dei politici italiani. E, sul numero zero del bimestrale «PD» (fantasia del nome!), neonato organo di discussione del nascente Partito democratico, scrive: «Il PD può respingere l’antipolitica, uno dei più gravi rischi che il sistema democratico può correre». Bene. Ne siamo felici. Vorrà dire che sarà un partito molto forte. Era ora!
Ma a che cosa diavolo allude il premier parlando di antipolitica? Possibile che abbia in mente le sparate autunnali di Beppe Grillo? Intendiamoci. Qui, non si vuole affatto negare che il comico genovese sia un incosciente e che abbia fatto la cacca dove non doveva. Però possiamo sinceramente pensare che lui e il suo pubblico siano tanto potenti da rappresentare «uno dei più gravi rischi che il sistema democratico può correre»? Suvvia, siamo seri!
E, poi, anche ammesso che sia così, che cosa potrebbe fare il Partito democratico per respingere l’antipolitica? Emarginare i sediziosi? Risolvere le contraddizioni politiche e sociali che sono il vivaio dell’antipolitica? O tutte e due le cose insieme (un colpo al cerchio e uno alla botte)? Ma questi non dovrebbero essere compiti del governo più che di un partito?
Forse, però, quella di Prodi è semplicemente un’uscita propagandistica. L'ipotesi è verosimile, visto che qualche riga sotto il presidente del Consiglio si prende il gusto di lanciare una frecciatina (tanto innocua, per la verità) all’indirizzo dell’eterno rivale Berlusconi: «Noi abbiamo voluto un partito vero, disciplinato da regole e che si configuri come organismo collettivo. Tutto il contrario dei partiti oligarchici o personali.» Mah! Speriamo. (In ogni caso, perché un partito oligarchico o personale sarebbe meno vero di un partito che si configura come organismo collettivo? Boh! E, comunque, il partito vero è anche più efficace dei partiti non veri? Ha idee più chiare? Saprà convincere gli elettori?)
Ancora più probabile, tuttavia, è che, parlando di antipolitica, Prodi alluda in realtà al più generale clima di sfiducia, che avvolge non tanto la politica tout court, vagamente intesa, quanto i concreti risultati delle decisioni politiche e il modo in cui esse vengono prese in un sistema democratico. In questo bisognerà piuttosto vedere un’influenza dell’antidemocrazia, che storicamente ha sempre avuto più successo della democrazia stessa (chissà perché lo si dimentica così facilmente, nonostante le molte dittature dell'Europa occidentale: non solo il fascismo e il nazismo, ma anche la Spagna di Franco e la Grecia dei colonnelli). Ma bisognerà vedervi anche una legittima protesta dei cittadini, insoddisfatti di fronte alle troppe promesse non mantenute.
Se fosse così, altro che Partito democratico! Ci vorrebbe ben di più. A cominciare da un serio riesame della storia della democrazia moderna così come si è realizzata in Occidente e, magari, da uno sforzo per correggere almeno le principali storture. Per fare tanto, tuttavia, bisognerebbe rinunciare agli slogan propagandistici e alle conclusioni prefeconzionate. Chissà se è chiedere troppo.