giovedì 26 agosto 2010

Bye, bye, PD


Walter Veltroni è un impolitico: un uomo che, pur avendo passato una vita nei partiti, ha un approccio alla complessità dei problemi politici di tipo volontaristico, più consono all’associazionismo. Questa è la sua forza e il suo limite. L’impoliticità lo rende apprezzabile agli occhi di quelle fasce di elettori ricalcitranti al realismo della politica e, nello stesso tempo, lo mette nella condizione di non riuscire a portare a compimento gli scopi che si prefigge per insufficienza delle virtù che fanno di un uomo un politico.

Ma, come capita agli impolitici, Veltroni ha a volte quell’incoscienza virtuosa necessaria a compiere atti di coraggio che il realismo della politica sconsiglia. Poi, li compie a metà. Nel 2008, ha pienamente compreso che la necessità della politica italiana era semplificare lo spettro parlamentare in modo da favorire governi almeno relativamente omogenei. E ha puntato i piedi contro il gruppo dirigente del suo partito in gran parte ostile all’ipotesi di correre da soli. Ha ceduto su Di Pietro, e ha sbagliato, perché si è allevato una serpe in seno. Però metà del lavoro lo ha fatto.
Ora, Pierluigi Bersani manda all’aria tutto quanto, proponendo con la lettera al direttore di Repubblica un’aggiornata riedizione dell’Ulivo. Al momento in cui scriviamo sono già arrivati i sì di Riccardo Nencini, segretario del partito socialista, Angelo Bonelli dei Verdi e Paolo Ferrero, segretario del Prc/Federazione della Sinistra. Ipotizziamo che pure Di Pietro dia il suo assenso, e siamo a forza cinque. Mettiamoci anche i radicali e Sinistra Ecologia e Libertà e arriviamo a sette. Questa, verosimilmente, potrebbe essere la formazione di base del centrosinistra qualora si vada alle elezioni, tenendo conto che, come nel ’96, altri cespugli potrebbero aggiungersi strada facendo.
Cosa giustifica questa spettacolare inversione di marcia? Bersani lo dice in una prosa alquanta involuta. Ma il senso più o meno è questo: occorre una nuova santa alleanza, un nuovo CLN perché «per l’Italia la scelta non riguarda più solo un governo, ma finalmente una idea di democrazia e di società», si deve uscire «da una fase politica e culturale e non solo da un governo, verso una repubblica in cui alternanza e bipolarismo assumano la forma di una vera fisiologia democratica.»
Ciò significa che, a differenza di quanto cercò di fare Veltroni senza successo nel 2008, Bersani non si propone semplicemente di battere il Cavaliere alle elezioni. Si propone di liberare l’Italia dal berlusconismo: chiudere l’epoca della dittatura morbida e aprire l’epoca della democrazia. (Non sono queste le parole che usa, ma questo è quello che pensa.) A tal scopo si spinge a ipotizzare pure un’altra ipotesi: «un’alleanza democratica per una legislatura costituente», che «potrebbe coinvolgere anche forze contrarie al berlusconismo che in un contesto politico normale avrebbero un’altra collocazione.» Evidentemente, allude a Casini, Rutelli e forse persino Fini.
Dunque, tutti contro due: Pdl e Lega. A questo punto, è comprensibile che Bersani non avverta l’urgenza di specificare nel dettaglio i punti chiave della sua proposta programmatica (come si esce dalla crisi economica? Come si rilancia il lavoro? Come si riforma la giustizia?...). Lo slogan implicito alla sua lettera è questo: prima cacciamo l’invasore, poi si vedrà.
Questa visionaria impostazione poggia però su una presunzione tutta da verificare, e cioè che la maggioranza degli italiani non ne possa più del berlusconismo e preferisca l’eterogeneità del nuovo Ulivo (o della presunta alleanza democratica) alla relativa omogeneità del centrodestra a doppio binario. Il guaio è che per convincere gli italiani che è preferibile la prima scelta, Bersani non ha che un mezzo, dire quello che finora non ha voluto e potuto dire: appunto, cosa farà nell’ipotetico dopo, qualora le urne stabiliscano che tocca a lui governare. Finora non ha potuto dirlo perché altrimenti rischiava di spaccare il suo partito. Cosa potrà dire in un nuovo Ulivo che va da Fioroni e la Bindi a Vendola e Ferrero? Boh.
Ma, soprattutto, nell’Ulivo il Pd non serve, non è funzionale. Le diverse anime del riformismo italiano possono convivere in un partito comune solamente se quello è l’unico soggetto politico che può rappresentarle. Ma in una larga coalizione questa unicità viene meno. Perché la minoranza in disaccordo con Bersani dovrebbe restare nel Pd? Ha tutta la convenienza a dar vita a una nuova sigla. Autonomamente, nell’Ulivo conterebbe di più, potrebbe far valere un peso decisional-ricattatorio assai maggiore. Infine, Bersani non tiene conto che, presentandosi con l’Ulivo, impedisce che scatti il voto utile. E, quindi, se non si è sciolto prima, il Pd rischia di andare incontro a un ridimensionamento elettorale che ne accelererà inevitabilmente il declino.

3 commenti:

Alessandro ha detto...

L'Ulivo è un danno per la sinistra, dato che culturalmente non esiste e socialmente è avversato da chi non si riconosce in minestroni incolori ed insapori, costruiti solo per vincere aritmeticamente le elezioni e poi buoni solo per implodere immediatamente dopo il giuramento del governo (magari di 106 membri, come quello di Prodi).
La proposta di Bersani è l'idea dello sconfitto, che non sa perdere e non è in grado di muoversi per vincere, il sogno vacuo di chi non potendo dare una ragione per votarlo, cerca di costruire il solito carrozzone che poi lo investe uccidendolo.
Veltroni di Bersani è sicuramente migliore; ma anche lui, in quanto a consistenza politica, lascia molto a desiderare: uno che faceva parte della direzione del PCI e dice di non essere mai stato comunista non può che avere una credibilità proporzionale a quel che comunica.
Grazie per la tua visita.

Giuseppe Gallo ha detto...

Ormai anche l'aritmetica boccia senza pietà l'orgia ulivesca.

Unknown ha detto...

Letto con colpevole ritardo. Condivido anche le virgole di questo bell'articolo. Del resto aver resuscitato nientepopodimeno che l'Ulivo la dice lunga sulla mancanza di idee di Bersani e del suo PD

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