martedì 17 novembre 2009

Il conservatorismo non abita più a destra


Nel secondo libro della Politica, Aristotele affronta una questione che oggi suonerebbe ingenua a molte orecchie di destra e di sinistra. In sostanza, si chiede il filosofo stagirita: «È dannoso o giovevole agli stati mutare le leggi tradizionali, quando ce ne siano altre migliori?» La risposta sembrerebbe scontata: certamente è giovevole. Tanto più che, come riconosce lo stesso autore, «tutti cercano non quel che è tradizionale, ma quel che è bene». Ma, subito dopo, Aristotele osserva che «per chi esamina la cosa da un altro punto di vista, il cambiamento sembra richiedere molta cautela».

Perché? Perché «è male abituare gli uomini ad abrogare le leggi alla leggera». Perciò, «quando l’utile è minimo […], è chiaro che bisogna tollerare qualche sbaglio e dei legislatori e dei magistrati, perché l’utile apportato dal mutamento non pareggerà il danno recato dall’abitudine di disubbidire ai magistrati». Di più. «La legge non ha altra forma per farsi obbedire che il costume e questo non si realizza se non in un lungo lasso di tempo, sicché passare con leggerezza dalle leggi vigenti ad altre nuove leggi significa indebolire la forza della legge.»
Su queste parole è opportuno tornare a riflettere senza pregiudizi, perché le leggi tradizionali di cui parla Aristotele sono quelle costitutive, che contraddistinguono l’organizzazione fondamentale di uno Stato e fanno sì che esso sia un tipo di Stato piuttosto che un altro. Sono proprio quelle leggi che dal 1994 in poi l’Italia ritiene che vadano improrogabilmente aggiornate: sono per esempio quelle che riguardano il sistema elettorale, la giustizia, i poteri del presidente del Consiglio e dell’esecutivo, la funzione e la composizione dei due rami del Parlamento, ecc.
Naturalmente, ciascuno di questi ambiti andrebbe esaminato a sé (perché è certo, per esempio, che il bicameralismo perfetto è d’impaccio al buon funzionamento della politica in Italia o che la lunghezza estenuante dei processi è di danno ai cittadini che ne sono coinvolti). Ma qui ci poniamo un problema di carattere più ampio: diciamo così, di fenomenologia culturale. Insomma, tutti i segnali lasciano credere che per la nostra classe politica le riforme godano di un’attrattiva largamente superiore a quella del «tradizionalismo», cioè la conservazione dello stato vigente delle cose.
È una novità. Per tutta la prima Repubblica (così come per tutto l’Ottocento), infatti, a risultare predominante era stato il punto di vista artistotelico, condiviso non solo dalla DC e dal ceto imprenditoriale, ma in gran misura pure dallo stesso PCI, sempre molto cauto di fronte alle riforme radicali che minacciavano di accrescere le tensioni sociali o istituzionali (una di queste riforme fu la legge 898 che introdusse nel nostro Paese l’istituto del divorzio, fortemente voluta non a caso non da un comunista, bensì da un socialista e da un liberale – Loris Fortuna e Antonio Baslini).
In un sistema iperburocratizzato quale quello italiano, la difesa tradizionalistica della stabilità ha avuto, ovviamente, tanti effetti negativi, contribuendo ad allontanare dal nostro Paese quella rivoluzione liberale (vuoi nella forma violenta francese, vuoi in quella riformistica britannica) che non abbiamo mai avuto e di cui continuiamo ad aver bisogno. Ma, oggi, siamo passati da un difetto a quello opposto: una instabilità incancrenita alimentata dalla perpetua messa in discussione delle «leggi tradizionali», le regole del gioco che, da una parte ma anche dall’altra, si vuole cambiare appunto «alla leggera».
L’effetto per l’armonia sociale è devastante. Perché a venire minato alle fondamenta è il «governo della legge», senza il quale non può esservi nessuna fiducia nella politica e nelle istituzioni. Governo della legge vuol dire che la legge è superiore allo stesso legislatore, che non può modificare l’assetto legislativo a suo piacimento ma solo nel rispetto delle regole stesse. Ma, appunto, è l’opposto dello spettacolo che danno i governi Berlusconi dal 1994 in poi, i quali sembrano fare di tutto per dare a credere che la legge, quando non si può semplicemente aggirare, può essere lecitamente modificata, a seconda delle necessità di un gruppo ristretto di persone.
Perché il paradosso è che è proprio la parte dominante della destra ad aver voltato le spalle ai principi tradizionali del conservatorismo, facendo propri i proclami di un riformismo senza riforme (come si potrebbe dire parafrasando un vecchio e sempre attuale libro di Napoleone Colajanni): insomma, un riformismo senza i vantaggi del liberalismo, un’instabilità senza i vantaggi della rivoluzione.

11 commenti:

Paolo della Sala ha detto...

L'analisi è splendida (e mi ha "costretto" a linkare il blog sul mio La pulce di Voltaire). L'esempio berlusconiano, pur necessario, va però accompagnato da una critica severa del neoprogressismo prodiano.

Giuseppe Gallo ha detto...

Carissimo Paolo, grazie per l'apprezzamento. Sui due governi Prodi ho scritto in passato, e in modo molto "severo". Non so però se parlerei di "neoprogressismo". In effetti, c'è un abisso tra le ambizioni prodiane e i modesti risultati (imputabili in entrambi i casi alla ridotta maggioranza e al carattere eccessivamente eterogeneo della sua composizione).

Ma neppure le ambizioni di Prodi mi parevano così esplicitamente "progressiste". Le collocherei piuttosto nell'ambito di quel moderatismo cattolico aperto alla società moderna che ha caratterizzato una fascia della DC da cui appunto Prodi proviene.

Piuttosto, questo articolo, anche se non ho approfondito, sottende una complementare critica (anche questa non meno severa) all'incertezza culturale della sinistra. Perché è vero che l'attuale sinistra ha definitivamente rotto i rapporti con la tradizione comunista. Ma non è ancora stata capace di dar vita a una diversa cultura. Abbiamo un partito, un contenitore (il PD). Non sappiamo ancora bene, tuttavia, che cosa vi è contenuto. E' una sinistra liberale? E' una sinistra socialista? E' tutt'e due le cose? E' altro ancora? Mah.

Zigurrat ha detto...

Davvero molto interessante e stimolante. Ci sarebbe da dire anche qualcosa riguardo "la legge del Governo", così come nella seconda repubblica si va configurando.
Magari domani scrivo qualcosa, adesso "preferirei di no"....

Paolo Della Sala ha detto...

Vero che a Prodi il termine "progressista" mal si addice. In effetti avrei voluto scrivere "pseudoprogressista". Temo che la falsa politica (aggiungerei anche lo pseudoliberalismo e lo pseudoconservatorismo) produca quell'affanno poietico di cui in oggetto.

johnny doe ha detto...

Da un lato.l'articolo è interessante,dall'altro è un po' inconcludente e guarda dalla finestra gli avvenimenti.Insomma,lasciando perdere Aristotile (un po' banali le sue considerazioni,non credi?),questa Costituzione è da cambiare o no? Per me è altamente inattuale.Ormai rispecchia un mondo antidiluviano e nessun costituente poteva prevedere i fatti di 60 anni dopo.Inoltre,il clima in cui venne redatta influisce pesantemente e negativamente su tutte le istituzioni,molte delle quali anacronistiche,farragginose e inadatte a gestire un mondo molto più complesso dell'epoca in cui vennero stabilite.
Nemmeno la Chiesa,notoriamente restìa ai cambiamenti,è stata così immobilista rispetto alle proprie leggi e dogmi.La costituzione non è una nuova tavola di comandamenti divini scritti sulla pietra,ma un pezzo di carta fatto da uomini e come tale non è un tabù che altri upmini la cambino,anche nella prima parte.Mi chiedo che vuol dire una repubblica fondata sul lavoro.E' un po' poco per una tavola dei valori!Ma forse allora intendevano sui lavoratori,termine di inquietanti richiami e per questo modificata in un termine più astratto.Mi chiedo inoltre come in Gran Bretagna possano andare avanti senza una Costituzione.Ironia a parte,esaminate tutte le istituzioni repubblicane e ditemi se sono ancora adatte ad un corretto funzionamento e tutela dei cittadini,politiizzate come sono ed al di sotto di ogni sospetto,in special modo quelle di garanzia.Non parliamo poi della giustizia (si legga l'Ultracasta)che è ad un passo dallo sfascio totale,Berlusconi o non Berlusconi.Quanto all'esecutivo,la sua regolamentazione è ridicola e altamente inadatta ad affrontare con rapidità,autorità ed efficienza le sfide che il mondo attuale comporta,i cui tempi non son quelli aristotelici od ottocenteschi e nemmen quelli post bellici.
D'accordo la prudenza,ma attenzione a non chiuder la stalla quando i buoi son scappati.Sarebbe troppo tardi per tutto.

Giuseppe Gallo ha detto...

Nel Regno Unito "possono andare avanti senza una costituzione" per ragione storiche (parlamentarismo e democrazia hanno qui radici molto profonde e longeve), e per una ragione più astratta: il "governo della legge" (un'espressione oggi molto diffusa ma la cui definizione la diede appunto Aristotele) è più importante delle stessi leggi.

Cosa vuol dire questo? La nostra costituzione va aggiornata o no? Sì, va aggiornata. Lo scriviamo tutti, quasi tutti i giorni. Ma va aggiornata rafforzando, non indebolendo il governo della legge.

johnny doe ha detto...

La citazione inglese era ironica,per dimostrare che si può vivere bene anche senza costituzione.Tornando a noi,
che vuol dire cambiare la costituzione rafforzando il governo della legge?
Faccia qualche esempio di qualche articolo modificato in tal senso.Altrimenti può voler dire tutto ed il contrario di tutto,come ad esempio l'art.104 :la magistratura è un ordine o un potere?

Giuseppe Gallo ha detto...

In effetti, non avevo colto l'ironia. Ma non ce n'era bisogno. Possiamo dare l'osservazione per risaputa. Del resto, la buona politica è nata prima delle costituzioni.

Vedo che lei vuole a tutti i costi spostare la discussione su un piano più pragmatico. Bene. L'esempio che lei vuole lo offre la costituzione del 1948. Oggi sarà in parte superata, ma allora rispecchiava proprio l'esigenza di un ritorno al governo della legge che era stato spazzato via dalla dittatura fascista.

Non riesco invece a capire cosa non le è gradito dell'art. 104. Non le piace la formulazione? Reinterpreti così la prima frase: la magistratura è un ordine che esercita un potere autonomo e indipendente da tutti gli altri poteri.

johnny doe ha detto...

Purtroppo di teorie di costituzionalisti ce ne sono a iosa,ma quel che importa è che questa costituzione venga cambiata.Non siam più nel '48,un mondo che non esiste più e qualsiasi legge serve quando è viva e rispondente al contesto in cui deve essere applicata.La sua non è un' interpretazione dell'articolo 104,ma è la sua semplice riproposizione costituzionale che ha ingenerato dubbied incertezze, cause dell'odierno disagio. La magistratura è un'ordine,non un potere,ma come può osservare,i lergislatori hnno introdotto un dubbio foriero di future disgrazie."...da tutti gli altri poteri",presuppone che anch'essa lo sia un potere,e tale la magistratura si considera oggi sostanzialmente,cosa inaccettabile e pericolosa come ogni giorno si vede.Si cominci intanto a rendere più chiaro questo articolo senza ingenerare confusioni,dato che la differenza tra ordine e potere è notevole.E si cominci pure ad uniformare gli articoli costituzionali possibilmente in linea con l'Europa.Questo è solo un esempio oggi molto attuale,ma anche altri articoli sono fuori tempo e non servono a nulla.

Giuseppe Gallo ha detto...

Confesso: se vengo messo alle corde, scelgo di stare dalla parte dell'inattualità. La trovo molto più interessante dell'attualità.

Ma, a parte ciò, ce lo siamo già detto: non solo la Costituzione può essere cambiata, la storia dimostra che se ne può fare addirittura a meno. Suggerirei però di rimaner fedeli alla separazione dei poteri teorizzata da Montesquieu (e ancor prima da Platone: come vede un bel po' di secoli prima che si cominciasse a parlare di costituzione).

Perché, vede, la magistratura è un ordine che esercita un potere. La costituzione del '48 in questo non dice niente di assurdo o di superato. Si uniforma a un consensus largamente diffuso che contribuisce a distinguere i buoni stati dai bad countries.

johnny doe ha detto...

E' proprio qui il punto,la magistratura è un ordine che esercita un potere,che è cosa diversa dall'essere un potere come sono quello legislativo ed esecutivo.Ma come già detto,la seconda parte dell'art.104,ingenere confusione.E comunque oggi la magistratura agisce come un potere contestando leggi,compito che non gli compete,deve solo applicarle.Montesquieu non sarebbe molto contento.

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