giovedì 1 novembre 2007

Andersen e la democrazia

Nel suo commento del 18 ottobre, Greystoke ha scritto con efficacia metaforica: «Nelle stanze del Palazzo si respira un’aria di insicurezza. La maschera mediatica è ormai sgualcita, si è aperto uno squarcio nel cielo di carta del teatrino politico». Non credo che intendesse unirsi al coro di quanti sostengono che il governo Prodi (che pure, certo, non gode di buona salute) sia arrivato al capolinea. Conoscendo le sue simpatie pasoliniane, mi sembra più probabile che volesse richiamare l'attenzione sulla perdita di vitalità del nostro “sistema”: cioè il modello di democrazia e di organizzazione sociale che si è storicamente realizzato in Italia e in Occidente. Così intese, le sue parole suggeriscono alcuni spunti di riflessione.

1) Anzitutto, è utile precisare che un’aggiornata riflessione critica sulla democrazia e sul capitalismo non scaturisce, necessariamente, dal velleitarismo ideologico. È lecito dissentire da ogni nostalgia per i grandi Balzi in Avanti del passato recente e, nello stesso tempo, chiedersi se per caso il modello politico-sociale uscito vittorioso dalla Guerra Fredda non si porti dietro delle contraddizioni che rischiano di alterare o addirittura capovolgere i suoi scopi. Certo, si può osservare con soddisfazione che la democrazia è andata conquistando sempre più Stati al mondo: secondo il censimento della Freedom House, siamo passati dalle ventidue democrazie del 1950 alle attuali ottantacinque. Ma questa non dovrebbe essere una scusa per chiudere gli occhi di fronte ai mali congeniti alle democrazie dell'Occidente, a cominciare dall’inadeguatezza dei governi a contrastare l’anarchia finanziaria e dal cedimento della politica alle tentazioni della demagogia (una deviazione, quest'ultima, che di recente ha denunciato, sulle pagine del «Corriere della Sera», anche un liberale DOC come Giovanni Sartori).

2) Il re è nudo: si potrebbero sintetizzare così le parole di Greystoke. Anche nella fiaba di Andersen, tuttavia, non basta che il re sia nudo: è necessario che i sudditi ne prendano atto e che non si ostinino, per piaggeria o per paura, a negare l'evidenza di quel che sembra un'assurdità inconcepibile. Ma neppure la «voce dell’innocenza», che dice ciò che gli altri tacciono, è di per sé sufficiente. Perché, in assenza di alternative, i sudditi potrebbero convincersi che bisogna tenersi il re che è toccato in sorte, malgrado l’esibizione delle sue vergogne. E nemmeno la presenza di un’alternativa è in quanto tale sufficiente. È vero, come osserva Machiavelli, che «li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare», ma solo per accorgersi subito dopo di «avere peggiorato». La disillusione dell’esperienza storica potrebbe indurre i sudditi a ritenere che, a conti fatti, è preferibile un re nudo – ma di cui sono note le debolezze – a un’alternativa che promette molto ma della quale sono ignote le potenzialità negative. Lo scetticismo ha le sue buone ragioni, e sarebbe sbagliato liquidarlo snobbisticamente. Se vuole affermarsi, il nuovo che avanza (quando esiste) ha sempre l'obbligo di confrontarsi con la saggezza dell’esperienza consolidata. E sforzarsi di proporre una diversa e più fertile filosofia della storia.

3) Nella fiaba di Andersen (di argomento eminentemente politico), il re si espone nudo di fronte ai sudditi a causa della sua vanità: la passione per le stoffe e i vestiti. «Mentre di solito di un re si dice che è nella sala del Consiglio, di lui si diceva soltanto: “È nel vestibolo!”» Trascura, insomma, gli affari del governo a vantaggio dell’apparenza. Poiché le fiabe, come i miti, mettono in scena strutture profonde dell’anima e della società, che scavalcano i limiti temporali, non sarebbe troppo anacronistico leggervi una metafora della sudditanza al potere mediatico a cui si adeguano, per scelta o per forza, tutti i leader contemporanei (non solo italiani, non solo dell’Occidente).

4) Ma, a mio parere, è un altro il cancro che rischia di esaurire la nostra democrazia, e cioè la sua debolezza decisionale. Per sua natura, la democrazia è costretta a riconoscere (e disciplinare) un numero sempre crescente di diritti che, a loro volta, sono per definizione in conflitto tra loro. Con la conseguenza che i governi si trovano a dover affrontare un numero sempre maggiore di problemi (sconosciuti alle origini delle democrazie) e, allo stesso tempo, sono sempre meno nelle condizioni di governare, perché nell’era della globalizzazione i problemi maggiori sfuggono ai confini nazionali. Di qui, lo scandalo di un apparato di governo sempre più elefantesco e burocratizzato, al quale non corrisponde un’adeguata efficienza nell’azione.

5) Naturalmente, la complessità di tali questioni richiederebbe un approccio ben più approfondito. Qui, si vuole solo ricordare che, così come è esistito un socialismo reale che era l’opposto dell’ideale socialista ma nello stesso tempo ne portava alla luce le contraddizioni interne, analogamente esistono una democrazia e un capitalismo reali che hanno poco da spartire con quella democrazia e quel libero mercato immaginari le cui virtù sono universalmente e fin troppo acriticamente decantate. Ma la critica, se vuole essere tale, non può ammettere alcun principio sacro: nonostante la sua voce non sia mai quella dell’«innocenza» di cui parla Andersen, ha l’obbligo di mettere in discussione anche le materie più scabrose.

1 commento:

greystoke ha detto...

Caro Beppe, sono lusingato dalla considerazione che hai dato alle mie parole. E ti ringrazio per le utili riflessioni, come sempre molto stimolanti, sul delicato tema della democrazia. Provo a dare un ulteriore piccolo contributo, sia per chiariere il mio pensiero, sia per dare ulteriori spunti di riflessione.

Come dice Eric Hobsbawm: "The conditions for effective democratic government are rare: an existing state enjoying legitimacy, consent and the ability to mediate conflicts between domestic groups."

Ora grazie alla inettitudine (e delinquenza) della "èlite" politica, negli ultimi quarant'anni dalle nostre parti peggiora sempre più la legalità e il consenso; e poco ci manca che l'incancrenirsi dei problemi reali generi tensioni sociali tali, che non si possano più nemmeno mediare i conflitti tra i gruppi locali. Siamo quasi un caso da manuale di passaggio dalla demagogia alla tirannide (Platone, La Repubblica, libro VIII).

Ma la cosa più grave che stà accadendo in Italia è il progressivo impoverimento della popolazione grazie a una enorme quantità di piccoli cambiamenti. Si assecondano i privilegi di un esercito di vecchi, e al contempo si impongono ai giovani stipendi da fame e incertezza lavorativa, con un indebitamento insostenibile grazie ai mutui a tasso variabile che tra poco esploderanno e grazie al credito al consumo. Altri 40 anni e ci troveremo in una Italia irriconoscibile, totalmente asservita al potere finanziario. Come diceva Belloc "the Servile state is that in which the mass of men shall be constrained by law to labor for the profit of a minority" (Hilaire Belloc, Lo Stato Servile, 1912).

Infatti dopo il genocidio della classe contadina e operaia (Pasolini) stiamo assistendo anche alla distruzione della classe media su cui si fondava l'ideale di cittadinanza della borghesia liberale. Venendo a mancare gradualmente quel benessere diffuso, che l'Europa soltanto ha conosciuto in tanti secoli di Storia del mondo, ci aspetta una lenta ma inesorabile discesa verso lo stato servile in cui da sempre sopravvive il resto del pianeta: un tempo sotto il dispotismo dei "privilegiati primi" locali, oggi sotto quello della moderna finanza globalizzata.

Il Re è nudo, caro Beppe, ma questa favola sembra stia per finire in tragedia.

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