venerdì 9 novembre 2007

Le lingue di Mircea Eliade

Quale prezzo è lecito pagare per risalire «all’inarticolato momento del Principio»? Si potrebbe sintetizzare così – con questa domanda senz’altro enigmatica – il senso di Un’altra giovinezza, il film che Francis Ford Coppola ha tratto dall’omonimo romanzo di Mircea Eliade, edito da Rizzoli. Confesso di essere andato a vederlo senza aver letto nulla prima (ignoravo persino che il controverso intellettuale rumeno avesse scritto dei romanzi). Non so quindi come lo abbiano interpretato gli altri. Di un film così mi sento di parlare solo per punti.

Il plot. Indubbiamente, Eliade ha doti di grande soggettista. La storia prende avvio da una felice trovata, una di quelle che tutti quanti vorremmo avere. E che non riassumo, per non rovinare la sorpresa a chi ancora non avesse visto il film.

L’armonia incompiuta. In questa storia, con un inizio tanto folgorante, si affastellano tuttavia troppi ingredienti che non riescono ad armonizzarsi fra loro. Il risultato è una vicenda involontariamente barocca, intellettualistica e con un’ossatura traballante. La causa va cercata nell’esuberanza di Eliade, che scriveva troppo e troppo in fretta. Ma mi hanno sempre affascinato le storie di questo genere, che ambiscono potenzialmente al capolavoro ma si arrestano prima di arrivare alla compiutezza. Perché attraverso di esse – e cioè attraverso i molti spigoli rimasti, le ruvidezze, i passaggi incerti – si coglie la fatica dell’arte. Si può sbirciare nell’officina dell’autore e vederlo alle prese con una materia che oppone resistenza alla volontà creatrice. E così indipendentemente dalla sostanza di cui è composta la materia: parole, pigmenti, suoni, marmi, legno…

Il tempo. In questa storia ci si muove, avanti e indietro, lungo la linea del tempo. È un altro dei temi che mi interessano molto, e non vi trovo niente di fantascientifico o di fantastico. Vi vedo piuttosto una trasposizione letteraria di quanto facciamo ogni giorno. Quello che chiamiamo passato in realtà vive attorno a noi, nelle città e negli edifici che abitiamo, nelle parole che utilizziamo… Il senso della storia ci insegna a confrontare le differenze del divenire, ma il piacere della lettura ci fa ancora dialogare con Omero, Dante o Shakespeare come se fossero dei contemporanei.

Le lingue. Eliade ha probabilmente tentato un’impresa impossibile: è difficile infatti raccontare narrativamente le lingue. Ma, come mostra la tragedia, anche nel fallimento si può essere grandi. E di sicuro Eliade è stato grande nel trasmetterci l’amore per le lingue, antiche e moderne. A quell’amore sono particolarmente sensibile. Invidio chi conosce tante lingue. Non solo perché la realtà acquista senso unicamente nel momento in cui viene verbalizzata. Ma anche perché solo per mezzo delle lingue possiamo avvicinarci a quel Principio che, per il faustiano protagonista del racconto, rappresenta la fissazione di una vita. Secondo me, è qui la chiave di lettura, lo spitzeriano click: Dominic Matei come moderna incarnazione di Faust, al quale lo accomunano i poteri magici e il rimpianto d’amore.

Il click. Si può sacrificare l’amore per un’assoluta vocazione al sapere? O l’amore mette in crisi ogni vocazione? E se, scegliendo la vocazione al sapere, il sacrifico fosse fallimentare? Se restiamo con un pugno di mosche? («The Tree of Knowledge is not that of Life» ricorda un altro faustiano personaggio: il Manfred di Byron.) Avremo un’altra opportunità, un’altra giovinezza? E, avendola, per quale scopo la useremo? La saggezza degli anni ci consentirà di evitare i medesimi errori?

La Storia. Mi piacciono le storie che non ignorano la Storia. Eliade avrebbe potuto ambientare il suo plot in un tempo e in uno spazio “vuoti”, senza riferimenti agli avvenimenti del destino umano. Poteva scegliere la strada della metafora, dell’allegoria, della parabola. Invece, ha deciso che la nuova giovinezza del suo protagonista dovesse coincidere con la sventura dell’Europa: la dominazione nazista. Le contrapposizioni simboliche forse appesantiscono ancor più i contenuti. Ma, narrativamente, la scelta è efficace, perché conferisce al personaggio una più robusta solidità.

La regia. Mi piacciono i registi che hanno il senso dei dettagli, e in questo Coppola è maestro: il ventilatore sopra la scrivania, i cerchi del fumo di sigaretta… C’è da chiedersi come gli venga in mente di disporre certi oggetti in una scena o di suggerire agli attori determinati gesti. Meno mi sono piaciute le luci: troppi azzurri, troppi rossi (il tramonto da cartolina, le tre rose), troppo manierismo. Avrei preferito una maggiore sobrietà. Straordinaria la recitazione: grandissimo Tim Roth, sempre notevole Bruno Ganz (vorrei tanto rivederlo in Dans la ville blanche, diretto da Alain Tanner).

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