lunedì 12 gennaio 2009

L'amore comico

In una delle tante lettere anonime indirizzate a Mme Sabatier, donna di opulenta bellezza adorata allora da letterati, artisti e potenti parigini, Charles Baudelaire si domanda: «Non c’è forse qualcosa di essenzialmente comico nell’amore?» La frase, riportata da Roberto Calasso in La folie Baudelaire, rimane enigmatica. Baudelaire non precisa che cosa intendesse, lascia cadere con naturalezza questa verità come risaputa.

A colpire è soprattutto quell’avverbio: essenzialmente. Un termine familiare a chi si interessa di filosofia. L’avverbio è riferito all’aggettivo (comico) non al sostantivo (amore): vuol dire che nell’amore c’è qualcosa che è comico in sé, nella sua essenza.

Ma è chiaro che Baudelaire qui si riferisce pure all’essenza dell’amore: cioè nell’essenza dell’amore (l’amore in quanto tale) c’è qualcosa che è comico nella sua essenza (qualcosa che è comico in quanto tale). Questo significa che la comicità dell’amore trascende tanto il tempo (l’evoluzione dei costumi) quanto la nostra individualità. Il carattere comico dell’amore è cioè comune a ogni esperienza amorosa, indipendentemente dal tempo, dal luogo, dal modo particolare in cui la viviamo e dalla particolare coscienza che abbiamo dei nostri sentimenti. A tale carattere comico non possiamo dunque sfuggire, in quanto esso appartiene all’amore stesso.

Ma cosa c’è di essenzialmente comico nell’essenza dell’amore? Baudelaire non lo dice. Proviamo noi ad abbozzare qualche ipotesi. Abbiamo chiesto a un gruppo di amici di offrirci un commento, e ne abbiamo aggiunto qualcuno nostro. Naturalmente l’elenco è aperto, e chiunque può integrarlo.

■ Per amore diventiamo una caricatura di noi stessi, ma con l’attenuante di una nota tenera che rende il tutto comico e ci permette di sorridere. (Susanna)

■ Forse, piacevolmente rintontisce. Ma se si percepisce l’aspetto ridicolo, forse vuol anche dire che l’amore sta facendo le valigie ed è pronto a partire. (Bruno)

■ Assolutamente no. È una cosa intima. (Bussi)

■ Qualcosa di comico nell’amore? Sì, ma solo per il terzo che guarda. (Renzo)

■ Direi che è importante, nella domanda di Baudelaire, il forse. Quello che dà speranza una volta che hai recepito l’inevitabile aspetto comico. (Susanna)

■ Fin dall’inizio è maschera, e quella comica è la premessa dell’amore come Eros nel Simposio di Platone. Segue l’ubriacatura... (Massimiliano)

■ L’amore rivela, apre gli occhi. Se lo si interpreta al meglio tutto può avvenire con un sorriso. Una questione di giuste distanze utili per sempre. (Marta)

■ Non c’è forse qualcosa di tragicamente comico in tutto ciò che è la vita stessa? (Edoardo)

■ Sì, soltanto a condizione di riferirsi all’amore di coppia, carnale, passionale in senso materiale, sessuale. No, invece, per quello universale, non egoistico, direi sociale, per il quale non vedo spazio per alcuna vis comica. (Francesco A.)

■ Essenzialmente nudi, l’amore ci rende per forza di cose anche comici. Tutti. Questo è imbarazzante ma anche consolante. Tutti, la parola chiave per ridere. Anche noi, prima o poi, potremo ridere dell’amore. (Susanna)

■ Perché l’amore è essenzialmente comico? Perché fa fessi e contenti. (Anonimo parmenideo)

■ L’amore uccide, la comicità salva. (Vetra)

■ Mi viene in mente qualcosa che avevo letto, forse di Severino. Diceva che amore e comico si tengono equidistanti dal divino, l’uno impossibilitato a tornarci seppur desideroso, l’altro impossibilitato a sfuggirne seppur con smorfia di derisione, che rimane comunque paura. (Lorenzo)

■ Di essenzialmente comico nell’amore c’è solo un buon senso del ridicolo. (Susanna)

■ Ci vediamo come siamo, amando. Sempre mancanti e inadeguati. Meglio sorridere! (Giulia)

■ L’amore rende ciechi per troppo vedere. Giusto imbarazzo che sfocia, nel migliore dei casi, nella comicità. (Irene)

Tragicamente comico. Essenzialmente tragicomico. (Maria Giovanna)

Riguardo all’amore ho sempre pensato il contrario: che sia essenzialmente tragico... è vero però che comico e tragico sono collegati in modo probabilmente indissolubile. (Francesco I.)

Nell’amore non c’è nulla di comico quando lo vivi di prima persona. Magari se si raccontano dei propri drammi amorosi ad un amico, forse lui può trovarci del comico perché a volte quando si ama ci si comporta in maniera ridicola. (Milagros)

■ Il comico è in realtà un grande alleato dell’amore, perché ci fa intenerire dei limiti altrui che diversamente potrebbero disturbarci. (Guido)

lunedì 5 gennaio 2009

Otto punti sul Medio Oriente

Fermare Hamas, esigere da Israele il cessate il fuoco. Potrebbe essere questo (o uno simile) il titolo di un serio appello, che tenti di unire le forze riformiste del centrosinistra e del centrodestra. (Pur scritte in un momento in cui le informazioni s’accavallano in modo spesso contraddittorio lasciando inevitabilmente molti spazi oscuri, le note che seguono provano a partire dalla cronaca per individuare alcune provvisorie linee guida da offrire al dibattito per una tregua duratura).

1) Su Hamas ricade la responsabilità del conflitto in corso. Ma il proseguimento delle operazioni di terra da parte di Israele rischia di accrescere l’odio e di rendere più difficile il processo di pace. Israele ha già colpito un gran numero di obiettivi e ha ridotto duramente le capacità di aggressione di Hamas. Ora può fermarsi, e deve farlo in tempo. Deve cioè resistere alla tentazione di stravincere, di annientare l’avversario, per non rischiare di passare dalla parte del torto e perdere il consenso dell’opinione pubblica internazionale.

2) Ha il dovere di farlo anche perché il proseguimento delle operazioni di terra renderebbe più problematica la posizione degli arabi moderati e più arduo il loro compito nel tenere a freno il radicalismo interno. Abu Mazen ha più volte messo in guardia Hamas dai pericoli che correva nel rompere la tregua e ne ha riconosciuto le responsabilità nel dare avvio al conflitto. è comprensibile che oggi corregga parzialmente le sue posizioni: è una misura cautelativa necessaria per non attirare su di sé e su al-Fatah il risentimento interno. Ma questo cambiamento di tattica è una spia dei danni che il conflitto può provocare, indebolendo le forze più disponibili al dialogo. Lavorare per una tregua duratura vuol dire fare l’impossibile per riaprire il confronto con le fasce moderate del popolo palestinese e più in generale del mondo arabo. Senza un confronto e un accordo con esse, non può esserci alcuna pace duratura.

3) Israele ha il diritto di difendersi. Ma il governo di Israele dovrebbe chiedersi se la prolungata operazione bellica non finisca col fare gli interessi del network del terrore. Per alcuni anni, Israele ha condotto una serie di azioni mirate volte a colpire i massimi leader di Hamas fra i quali, nel marzo 2004, lo sceicco Yassin. Tali azioni hanno inferto, nell’immediato, un duro colpo all’organizzazione. Ma le hanno anche fornito un potente strumento di propaganda che nel gennaio 2006 ha contribuito alla vittoria elettorale di Hamas. La guerra in corso oggi non rischia di produrre effetti ancora più disastrosi?

4) è comprensibile che Israele si impegni per il mantenimento di una disparità di forze rispetto ai suoi vicini. è uno Stato democratico e liberale che in passato si è trovato circondato da Stati nemici e nel presente (dopo i trattati di pace stipulati con Egitto e Giordania) si trova nel mirino del radicalismo e del terrorismo. Nessuno può impedirgli di cautelarsi. Ma, a maggior ragione, uno Stato democratico e liberale ha il dovere di usare la propria forza in modo ragionevole, cioè proporzionato ai fini difensivi.

5) Non siamo più all’Intifada. Hamas dispone di un vero e proprio esercito, sia pure composto di guerriglieri mischiati alla popolazione civile. La logica di molti suoi capi tuttavia rimane quella del terrore: si basa sulla strategia della tensione, sulla vocazione al martirio. Hamas (come Hezbollah, come al Qaeda, come parte dell’Iran) può solo fantasticare di eliminare Israele e tutti gli ebrei dalla faccia della Terra. Non ha i mezzi per farlo. Può essere invece seriamente tentata di trasformare la Palestina in uno Stato kamikaze, cioè di trascinare i suoi abitanti in un immane bagno di sangue nel tentativo di scatenare una reazione a catena fra gli Stati arabi e nella popolazione araba in Occidente.

6) Gli arabi moderati sono perfettamente coscienti di questo pericolo. Sanno che, insieme a Israele e agli USA, loro sono il primo obiettivo del network del terrore (in proposito Bin Laden è stato più volte esplicito). Ciò significa che gli arabi moderati hanno tutto l’interesse a combattere il radicalismo nei propri confini. E questo è anche l’interesse dei moderati palestinesi. Ma è compito di Israele e dell’Occidente consentire ai moderati palestinesi di disporre dei mezzi per combattere il radicalismo.

7) In sostanza, Israele e l’Occidente si dovrebbero chiedere senza pregiudizi se non sia opportuno riconoscere all’ANP il diritto a disporre di un esercito regolare, sia pure sotto la supervisione della comunità internazionale. Lasciare il monopolio della forza ad Hamas non si è dimostrata una cosa saggia.

8) Durante la guerra dei Sei Giorni, USA e URSS intervennero con prontezza sulle rispettive sfere di influenza per evitare le possibili degenerazioni. Nessuno ha nostalgia del duopolio della Guerra Fredda. Ma, oggi, le istituzioni della comunità internazionale (come già è avvenuto nelle ultime precedenti guerre) danno prova di grande fatica nell’assolvere quella funzione di garante dell’ordine internazionale che un tempo il duopolio USA-URSS esercitava secondo i metodi tradizionali dell’equilibrio delle potenze. Questo è molto preoccupante, perché accresce il senso di tensione e perché incoraggia gli Stati (non solo del Medio Oriente) a regolare i propri conflitti autonomamente. Nonostante tutte le divisioni interne di origine storica, la UE dovrebbe avere interesse a ricercare una coesione di intenti in modo da esercitare una più forte pressione sull’ONU e impedire che le grandi scelte che riguardano il pianeta sfuggano alla logica del confronto democratico.

mercoledì 26 novembre 2008

L’utopia laica: storia di una sconfitta

Partiamo dal fondo. Tracciando un quadro riassuntivo delle tendenze politiche degli ultimi due decenni in Italia, nel capitolo conclusivo di Storia dei laici Massimo Teodori scrive: «Fino agli anni Ottanta, le forze laiche valevano ancora un quarto dell’elettorato italiano mentre, dopo Tangentopoli, precipitarono a poco più del 5% del consenso nazionale.» E, più risolutamente: «In Parlamento non sono mai stati approvati tanti provvedimenti illiberali e non furono mai ostacolate tante leggi liberali come nella Seconda repubblica.»

Siamo agli antipodi dell’agiografia intellettuale. Quella che, dall’interno, Teodori ci racconta è la storia di una sconfitta. Non solo nel nostro Paese il laicismo è sempre stato minoranza e, dopo la fine del totalitarismo fascista (a cui pure ha contribuito in modo decisivo), non è riuscito a candidarsi a governare il processo di modernizzazione. Addirittura, nel momento in cui è venuto meno uno dei suoi antagonisti storici – il totalitarismo comunista –, ha perso l’occasione che gli si presentava, assistendo inerte alla progressiva erosione del proprio margine di consenso.

Il sofferto atto d’accusa che proviene dal libro è, insomma, forte. Impossibile fraintendere. I molti personaggi che affollano questo «romanzo di idee» (come lo ha efficacemente chiamato Filippo La Porta) sono tutto fuorché dei santini. Assomigliano piuttosto a «pazzi malinconici» (per usare una definizione di Gaetano Salvemini, ricordata dall’autore): intellettuali eretici e irregolari, sorretti da una poderosa tensione utopica e, nondimeno, incapaci di trovare un accordo per organizzare in maniera efficace la propria azione politica.

Teodori ripercorre la traiettoria di questi uomini, grandi e perdenti, con il rigore dello storico, e insieme con la passione del militante che, pur prendendo atto della sconfitta, non si abbandona alla rassegnazione. Lo scopo del libro è duplice. Da una parte, fare giustizia colmando il vuoto bibliografico che ha accompagnato questa tradizione e riconoscendone criticamente l’importanza fondamentale nella storia delle idee. Dall’altra, sollecitare un ampio e spregiudicato dibattito politico-intellettuale, che consenta di recuperare quanto di vivo quella tradizione ancora possiede e riproporre una prospettiva laica in Italia.

Non avendo specifiche competenze storiche, è proprio su questo terreno più teorico che vogliamo intervenire, e lo facciamo anche noi dall’interno (chi stende queste note ha avuto una formazione liberalsocialista e, pur essendo consapevole del carattere minoritario del socialismo liberale, continua a credere che i suoi strumenti analitici siano tuttora utili per comprendere il tempo presente).

Dunque, la sconfitta del laicismo. Quali ne sono le cause? Teodori le riconduce, coerentemente ai suoi presupposti, a circostanze storiche. L’esempio più stringente lo offre il resoconto delle divisioni in seno al Partito d’Azione dopo la Liberazione, che ne hanno determinato il rapido declino. Ma ci si può chiedere se, al di là delle circostanze storiche o degli errori umani, non abbiano agito cause più profonde, di tipo metapolitico (ci si passi il termine).

In sostanza. Tutte le molteplici correnti del laicismo hanno due fattori in comune: sono figlie del liberalismo e sono figlie del razionalismo sette-ottocentesco. Anche i movimenti laici nati nel secondo dopoguerra (il partito radicale) affondano le radici in una cultura precedente all’avvento della società di massa, e non hanno mai dimostrato di capirne appieno la realtà e i bisogni. (Del resto, non è un caso che, così come mancano studi complessivi «sul mondo laico e antitotalitario» che «vadano al di là delle monografie su singoli aspetti della nostra storia», come osserva Teodori in apertura al suo libro, allo stesso modo manchino anche studi riassuntivi sulla società di massa che non siano viziati da preclusioni ideologiche.)

In un vecchio libro sull’utopismo di Adriano Olivetti (Fini e fine della politica, scritto in collaborazione con Giulio Sapelli), Roberto Chiarini osservava che fra le ragioni del fallimento del movimento di Comunità va registrata anche la mancanza di un adeguato bagaglio di simboli in grado di competere con le parole d’ordine a forte impatto sociale dell’immaginario democristiano e comunista. Ma questa diagnosi la si potrebbe estendere a tutta la tradizione laica: liberale, liberaldemocratica, socialdemocratica, socialista riformista, liberalsocialista, azionista, radicale…

Qui, non si vuole ignorare il forte pathos attivistico che alimenta fin dalle sue origini questa tradizione. E tanto meno si vogliono ignorare i numerosi appelli a un liberalismo di massa, che si sono succeduti nel XX secolo. Ma, anche nella sua versione più “aperta” e operaista (quella di Gobetti), tale pathos si è espresso tutt’al più in un’andata verso il popolo, mai davvero verso le masse. Il laicismo rimane un fenomeno aristocratico, condiviso essenzialmente dalle élite intellettuali.

Sono piuttosto i totalitarismi (quello fascista, quello nazista, quello sovietico, quello clericale, quello odierno della Tecnica: e qui rimando a Heidegger e a Severino) ad aver intuito l’importanza delle masse e ad aver saputo trovare il linguaggio adatto a conquistarne il consenso. Un laicismo che non si rassegni a una posizione subalterna alle culture uscite vittoriose dai conflitti della modernità ha l’obbligo di riaprire senza pregiudizi il dialogo con le masse. Per dirla in modo molto spiccio, andare a scuola dagli ex DC e dagli ex PCI.

Ma c’è un altro punto che andrebbe sottolineato. Il liberalismo – che è premessa imprescindibile del laicismo politico (il secondo non esiste in assenza del primo) – ha esercitato la sua più autentica funzione storica anzitutto nell’ambito delle regole. L’importanza delle regole è la principale eredità che il liberalismo ci ha lasciato. Noi siamo liberi da tutto e siamo liberi di fare tutto, ma non siamo liberi dalla legge e non siamo liberi di infrangere la legge. La Legge è l’unico dio in Terra a cui il liberalismo riconosca il diritto di disciplinare la nostra vita collettiva. In questo senso, il liberalismo si colloca al di fuori della competizione politica: non è né di destra né di sinistra. Si preoccupa di definire anzitutto i confini entro i quali la competizione può svolgersi.

Su questo fronte, il liberalismo è stato persuasivo: la democrazia oggi è, per opinione condivisa, liberaldemocratica. Mentre le democrazie popolari sono sempre più viste come dittature mascherate, e questo non solo in Occidente. Certo, esiste pur sempre la possibilità che l’elettorato consideri le regole un “valore” secondario rispetto ad altre priorità e sia disposto a sacrificarle sull’altare di quest’ultime (la sicurezza, il benessere economico, la garanzia dell’occupazione…). I liberali, perciò, hanno il dovere di vigilare affinché le maggioranze non facciano demagogicamente perno sulle paure invalse per ridurre a proprio vantaggio i confini delle libertà.

Ma i liberali (a maggior ragione i liberali socialisti, i liberali di sinistra) renderebbero un modesto servigio se si limitassero ad assolvere questa funzione. Se vogliono riacquistare consenso, devono anche riuscire a dimostrare che il liberalismo è in grado di rispondere alle domande provenienti dalla moderna società di massa, la quale non è più la società opulenta di cui parlava Galbraith alla fine degli anni Cinquanta. Piuttosto è una società che ha una rabbiosa nostalgia di quell’opulenza e che, a ragione o a torto, intende difendere a denti stretti i privilegi che conserva (sempre più ridotti, ma ancora enormi rispetto alla situazione comune alla maggior parte dei Paesi del pianeta) dalle pressioni provenienti dalle folle dell’Est e del Sud che aspirano a sedersi a loro volta al banchetto dei ricchi.

È sempre possibile che le maggioranze sfruttino le grandi crisi economiche per ridurre i margini di libertà, mascherando gli interessi di parte dietro lo schermo del populismo. Ma è anche possibile che tali crisi, come le guerre e le carestie di Malthus, finiscano alla lunga col fare bene all’ecosistema (umano se non ambientale) e col porgere alle forze progressiste un’occasione per ridisegnare in modo più avanzato le linee guida del gioco politico.


Massimo Teodori
Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista
MARSILIO
pp. 363, € 19,50


lunedì 17 novembre 2008

Le ninfe di Darger

di Susanna Janina Baumgartner

Torino è la città dell’arte contemporanea. Lo dimostra la Triennale curata da Daniel Birnbaum: 50 lune di Saturno. Fra le opere esposte alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, colpisce il lavoro del cino-americano Paul Chan che fa esplicito riferimento alle opere di Henry Darger (foto sotto).


Darger è uno degli artisti presenti nella collezione dell’Art Brut a Losanna. Il suo lavoro, come scrive Giorgio Agamben in Ninfe, è particolarmente interessante per il geniale procedimento creativo. Poiché non sapeva disegnare, ritagliava immagini di bambine da album di fumetti o da giornali e le ricalcava con una velina. L’artista poteva così disporre di un repertorio formulare e gestuale (variazioni seriali di una Pathosformel, di un cristallo di memoria storica che possiamo chiamare ninfa dargeriana) che poteva combinare come voleva, attraverso collage o ricalco nei suoi grandi pannelli.

Agamben sottolinea l’analogia con Aby Warburg, perché il lavoro di Darger rappresenta il caso estremo di una composizione artistica unicamente per Pathosformeln, che produce un effetto di straordinaria modernità.


Paul Chan ha colto infatti tutta la modernità di Darger (1892-1973) e, attraverso la tecnica del video (foto sopra), ha riproposto la storia delle Vivian girls: sette bambine che guidano la rivolta contro i crudeli adulti Glandolinians, che schiavizzano, torturano, strangolano e sventrano le fanciulle.

Nella stanza in cui Henry Darger era vissuto per quarant’anni, il proprietario Nathan Lerner, fotografo e designer, trovò una quindicina di volumi dattiloscritti, rilegati a mano, che contenevano una sorta di romance di quasi trentamila pagine dal titolo In the Realms of the Unreal e pannelli cartacei, lunghi a volte fino a tre metri, che illustravano il romanzo.

In un paesaggio apparentemente idilliaco, bambine munite di un piccolo sesso maschile giocano tra i fiori e meravigliose creature alate (i serpenti Blengiglomean), ma sullo stesso piano, in un’inquietante sdoppiamento dell’immagine, vi sono scene sadiche di inaudita violenza.

I critici che si sono occupati di Darger hanno sottolineato gli aspetti patologici della sua personalità che non avrebbe mai superato i traumi infantili, presentando tratti autistici. Tuttavia è più interessante indagare non tanto le motivazioni alla base della sua opera, ma piuttosto il rapporto con le sue Pathosformeln.

«Certamente egli è vissuto per quarant’anni totalmente immerso nel suo mondo immaginario», scrive Agamben. «Come ogni vero artista, egli non voleva però semplicemente costruire l’immagine di un corpo, ma un corpo per l’immagine. La sua opera, come la sua vita, è un campo di battaglia il cui oggetto è la Pathosformel “ninfa dargeriana”. Essa è stata ridotta in schiavitù dai malvagi adulti (spesso rappresentati in veste di professori con toga e berretto). Le immagini di cui è fatta la nostra memoria tendono, cioè, nel corso della loro trasmissione storica (collettiva e individuale), incessantemente a irrigidirsi in spettri e si tratta appunto di restituirle alla vita. Le immagini sono vive, ma essendo fatte di tempo e di memoria, la loro vita è sempre già Nachleben, sopravvivenza, è sempre già minacciata e in attesa di assumere una forma spettrale. Liberare le immagini dal loro destino spettrale è il compito che tanto Darger che Warburg – al limite di un essenziale rischio psichico – affidano l’uno al suo interminabile romanzo, l’altro alla sua scienza senza nome.»

venerdì 17 ottobre 2008

Immortalità artificiale

di Susanna Janina Baumgartner

Per sconfiggere il perturbante presentimento di morte e la paura della morte, l’uomo è arrivato a creare scientificamente un suo “doppio”. La clonazione, come dice Jean Baudrillard in L’illusione dell’immortalità, rappresenta una via per passare al di là della morte, una «immortalità artificiale», e il problema della clonazione riguarda direttamente la dolorosa questione dell’immortalità. Sogniamo di superare la morte attraverso l’immortalità, e per essere immortali dobbiamo ritornare a uno stadio precedente l’apparizione dell’individualità e della differenziazione sessuale. La pulsione di morte, secondo Freud, è precisamente questa nostalgia per uno stadio precedente l’apparizione dell’individualità e della differenziazione sessuale. Abbiamo ritrovato l’immortalità degli esseri protozoici.

Possiamo anche vedere nella clonazione, la rinascita della nostra seduzione per mezzo di una forma arcaica di incesto con il gemello originario e la conseguente forma psicotica che tale fantasia primitiva comporta (il film Inseparabili di David Cronenberg illustra drammaticamente tale concetto).

La maggior parte del tempo questa gemellanza rimane oscura e simbolica, ma se viene resa cosciente, materializzata, illumina il mistero della separazione simbolica, della divisione invisibile che si trova in fondo all’anima di ciascuno. In qualche luogo della nostra interiorità, nel profondo del nostro inconscio, noi non accettiamo mai pienamente tale separazione e individuazione; oppure abbiamo paura e nello stesso tempo nostalgia di questo doppio che è nostalgia per uno stadio del tempo passato.

Se scoprissimo che non tutto può essere clonato, simulato, programmato, selezionato geneticamente e neurologicamente, allora ciò che sopravvivrebbe potrebbe veramente essere chiamato “umano” e potremmo finalmente identificare le vere inalienabili qualità umane. Resta comunque il rischio, in questa avventura sperimentale, che l’essere umano sia cancellato o bisognerebbe ridefinire completamente cosa sia la specie umana attraversando un limite oltre il quale non saremo più in grado di riconoscere né l’umano né l’inumano. E se l’umano non farà posto al super-umano, all’oltre-umano prospettato da Nietzsche, si aprirà invece la strada al sub-umano, quindi a qualcosa che è sotto la dimensione dell’umano e che cancellerebbe i tratti simbolici che sono costitutivi della specie.

È possibile parlare dell’anima o della coscienza o dell’inconscio secondo il punto di vista dei cloni, degli automi e delle chimere?

«La prima notizia della Chimera si ha nel libro VI dell’Iliade. Questo dice che era di lignaggio divino e che davanti era leone, in mezzo capra, e in fine serpente… Piuttosto che faticare a immaginarsela, era meglio tradurla in qualsiasi altra cosa…» (Jorge Luis Borges e Margarita Guerrero, La Chimera, Manuale di zoologia fantastica).

Sia l’individuo che i fondamenti della specie sono messi in discussione dallo spostamento dei limiti dell’umano nella simulazione genetica della vita. Le culture non occidentali non operano una discriminazione tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Noi abbiamo inventato la distinzione che ora stiamo per cancellare, senza avere una cultura in grado di sostenere questa cancellazione e solo la cultura continuerà a differenziarci. La salvezza dipende dalle nostre acquisizioni e da una cultura viva in grado di preservarci dall’inferno dell’identico. La cultura stessa diventa clonazione mentale, attraverso gli stili di vita e attraverso le idee, sotto il segno del pensiero unico, anticipando la clonazione biologica.

La possibilità della clonazione ci permette di revisionare criticamente gli elementi fondamentali della nostra etica millenaria e di pensare a ogni genere di problema o dubbio, ancora impensabile o quasi, possa essere creato dalle nostre recenti possibilità di riproduzione.

Tutte le storie riguardanti il doppio descrivono un conflitto e quindi un conflitto è inevitabile. Per essere all’altezza di questo stato paradossale delle cose, abbiamo bisogno di un modo paradossale di pensare e, considerando che il mondo sta scivolando nel delirio, dobbiamo adottare un punto di vista delirante. La cosa più difficile è rinunciare alla verità e alla possibilità di verifica e rimanere il più a lungo possibile nel lato enigmatico, ambivalente del pensiero.

La verità non offre più una soluzione. Ma forse possiamo aspirare a una soluzione poetica del mondo. Noi non siamo mai propriamente presenti a noi stessi o agli altri e quindi non siamo esattamente reali uno per l’altro, né lo siamo abbastanza per noi stessi; questa radicale alterità è la nostra più grande fortuna, è la nostra possibilità di vita.

Questo concetto di illusione radicale presenta analogie con la cosmologia. La luce delle stelle viene da noi percepita quando la stella è già scomparsa e questa mancanza di simultaneità è una parte ineliminabile dell’illusione del mondo, quell’assenza nel cuore del mondo che costituisce l’illusione. L’illusione è la legge generale dell’universo, l’illusione è un gioco, e la realtà è solo un’eccezione. Se lo stesso fosse identico allo stesso, saremmo di fronte a una realtà assoluta, sinonimo di morte.

«Cerchiamo di essere più chiari», osserva Baudrillard, «se la Realtà sta scomparendo, non è perché essa manca – al contrario, ce n’è troppa. È l’eccesso di realtà che mette fine alla realtà, proprio come l’eccesso di informazione, o l’eccesso di comunicazione mette fine alla comunicazione.»

Se tutto è già calcolato, verificato e realizzato in anticipo cosa dobbiamo fare? Da potenziali poeti, dobbiamo salvare le tracce del mistero e dell’illusorio, contro il tentativo di costruire un mondo completamente positivo, razionale e vero; salvare la dimensione simbolica del linguaggio.

venerdì 3 ottobre 2008

Il paradosso della democrazia

La tre giorni sulla Crisi della (non)democrazia, promossa a Roma da Radio Radicale, in collaborazione con la Fondazione per la cittadinanza attiva e l’Università popolare di Roma, focalizza l’attenzione soprattutto sull’attualità politica italiana. L’iniziativa è pregevole perché coglie un insieme assolutamente reale di segnali preoccupanti: l’indebolimento del potere legislativo del parlamento, l’abuso del ricorso al decreto legge, la mancata nomina del presidente di un organo di garanzia fondamentale come la Commissione di vigilanza sulla RAI, il collasso del sistema giudiziario (nove milioni di processi pendenti!), l’abnorme concentrazione di proprietà nelle mani del presidente del Consiglio, l’enorme diffusione dell’evasione fiscale (pari ormai a oltre il 19 per cento del PIL), la sbalordiva ramificazione del lavoro nero (quasi tre milioni di lavoratori su un totale di ventiquattro milioni non sono in regola).


Qui, tuttavia, vogliamo offrire un contributo di carattere più teorico, allargando la prospettiva alla dimensione internazionale e a quella storica. Potremmo iniziare ponendoci una domanda: ma la democrazia, considerata nei suoi aspetti costitutivi, è davvero in crisi? Se prendiamo in considerazione la democrazia formale, la risposta deve essere no. In effetti, secondo i dati offerti dalla Freedom House, il numero degli Stati che possono dirsi formalmente democratici è cresciuto in modo considerevole dalla fine della Guerra Fredda in poi, arrivando a contare circa 150 Paesi sui quasi 200 del pianeta.

Il calcolo sembra dare ragione alla tesi di Francis Fukuyama secondo cui il cammino verso la democrazia sarebbe irreversibile. Certo, non ignoro che l’opera principale del noto politologo statunitense, La fine della storia, ha sollevato molte riserve a sinistra, che sostanzialmente condivido. Eppure, rimane un dato di fatto: la democrazia ha sconfitto i sistemi antagonistici (a cominciare dal più potente dei suoi avversari: il socialismo reale di matrice sovietica), imponendosi universalmente come lo strumento più consono, anche se imperfetto, a governare i conflitti della modernità. Questo dato di fatto deve essere tenuto fermo in ogni riflessione.

Tuttavia, c’è un altro dato di cui occorre tenere conto: in tutte le democrazie occidentali, comprese quelle di più antica tradizione, il senso di insoddisfazione è andato immensamente incrementandosi nel secondo dopoguerra. Ne sono indice, fra l’altro, la scarsa partecipazione alle elezioni, e il diffondersi un po’ dappertutto, a destra, di movimenti xenofobi o neofascisti e, a sinistra, di quelle nuove forme di dissenso su cui, in Moltitudine, si sono soffermati Michael Hardt e Antonio Negri, forse ingigantendone la portata.


Insomma, la democrazia “reale” (quale si è effettivamente realizzata) ha sbaragliato sì i sistemi avversari, ma non per questo entusiasma gli animi. Anzi, si direbbe che finora non sia stata in grado di mantenere le promesse: non solo non è riuscita a garantire l’eguaglianza dei cittadini, ma addirittura si è rilevata impotente a fronteggiare la nascita di nuove sacche di privilegio e di disagio sociale, ad arginare le tendenze neofeudali della mondializzazione dei mercati e dei traffici finanziari, a salvaguardare gli abitanti del pianeta dalle ripetute crisi economiche e dall’insicurezza che ne deriva. La crisi della democrazia, oggi, è anzitutto il prodotto del mancato conseguimento di questi obiettivi, e non di un’aggressione dall’esterno, derivata da movimenti totalitari. E s’intende è una crisi che coinvolge in egual misura tanto la destra quanto la sinistra: la presidenza Clinton negli Stati Uniti, il governo Blair nel Regno Unito, quello di Prodi in Italia sono stati percepiti in termini ampiamente negativi, non diversamente dai governi conservatori che li hanno preceduti o seguiti.


Ma possiamo porci un’altra domanda: la crisi della democrazia (nei termini in cui l'abbiamo intesa) è una crisi storica, contingente e quindi emendabile, dovuta all’uso inappropriato dei suoi strumenti da parte dei governi, o è una crisi strutturale, dovuta ai suoi modi di organizzazione?


Prima di rispondere a questa domanda, tuttavia, è opportuno ricordare che i teorici della democrazia (da Montesquieu ad Alexis de Toqueville, arrivando fino a Norberto Bobbio o a Giovanni Sartori) sono accomunati da un pessimismo cosmico di fondo. Non nutrono molte illusioni sul destino umano: sono anzi ben coscienti che l’umanità non è poi questa gran cosa e che, per loro natura, gli uomini sono più propensi a una caotica bellicosità che non a un ordinato solidarismo. È significativo, per esempio, che nonostate sia stato legittimamente considerato come un prosecutore dei principi illuministici, Bobbio guardasse costantemente a Hobbes, non a Voltaire. Per lui e per tutti gli altri classici del pensiero democratico, la democrazia non ha il potere di trasformare gli uomini in esseri virtuosi, e neppure si propone di farlo (questo semmai è l’obiettivo di tutti i sistemi teocratici, confessionali o no). Si pone invece un altro scopo: controllare chi governa, e quindi controllare le maggioranze.


Eh sì, la democrazia non lascia carta bianca a nessuno, si alimenta di una sostanziale sfiducia nei confronti degli uomini e dei governanti. Sa che chi detiene il potere non sempre agisce al meglio o è il più illuminato, e sa anche che l’esercizio del potere potrebbe indurre persino il meglio intenzionato a usare la propria autorità per i suoi interessi, anziché per quelli della collettività. Come tutti gli altri regimi politici (compresa la dittatura), la democrazia ha bisogno del consenso. Ma, rispetto agli altri regimi politici, questo moderno Leviatano è l’unico ad affermare che chi detiene il potere deve essere sottoposto a un controllo istituzionalizzato. Ed è questo il fattore che più di ogni altro distingue la democrazia dagli altri regimi politici. Nel momento in cui viene meno tale controllo, viene meno anche la democrazia.

Proprio il complesso sistema procedurale che consente alla democrazia di limitare i danni che possono derivare da un cattivo utilizzo del potere ne condiziona nondimeno il funzionamento. Norberto Bobbio lo aveva detto molto bene: in una certa misura, la democrazia è sempre in crisi, lo è costitutivamente. Ovvero è sempre un po’ troppo lenta, sempre un po’ meno efficace di quanto le sfide del tempo richiederebbero. È questo limite che i grandi teorici della destra, da Karl Schmidt a Friedrich von Hayek, intendevano correggere, invocando il rafforzamento dell’esecutivo. Ed è su questo limite che, direttamente o no, fa perno la retorica dell’antidemocrazia (come la chiamava Bobbio), da sempre dilagante a destra così come a sinistra.

E qui arriviamo al paradosso più cocente e amaro: nonostante abbia sconfitto i sistemi antagonistici e nonostante sia oggi sulle labbra di tutti, la democrazia gode e ha sempre goduto di scarsissima popolarità. Un grande storico, Lewis B. Namier, ha mostrato che i moti del 1848 furono di fatto una rivoluzione degli intellettuali. Ma, più radicalmente, potremmo sostenere che la moderna democrazia è un prodotto dei ceti intellettuali: è nata aristocratica, in seno a gruppi minoritari della popolazione, e tale è rimasta (lo diciamo con dispiacere, senza alcuna adesione a forme di elitarismo sprezzante alla maniera di Ortega y Gasset). La prova sta nel fatto che, storicamente, le masse sono sempre state propense a sacrificare le prerogative della democrazia in favore di un governo forte capace di assicurare valori giudicati superiori: un tempo, la difesa dei confini o dalla paura dei rossi, oggi la sicurezza, la protezione dalla minaccia economica cinese, la salvaguardia del lavoro messo in pericolo dagli extracomunitari o dagli immigrati dell’Est, eccetera. Troppo spesso si dimentica che tanto il regime fascista quanto quello nazista e quello staliniano godettero di un favore popolare ampiamente diffuso e radicato: l’antidemocrazia, con la forza del suo immaginario e la semplicità dei suoi simboli, ha fatto spesso più proseliti della democrazia.


Un’ulteriore conferma, per restare ai fatti di casa nostra, la offre Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista di Massimo Teodori, uno dei fondatori del partito radicale (lo recensiremo prossimamente). È vero che tanto la cultura cattolica quanto quella comunista hanno contribuito in modo decisivo alla storia dell’Italia democratica. Ma per nessuna delle due la democrazia era uno scopo in sé. Piuttosto era un mezzo, da porre al servizio di quello che veniva giudicato il vero fine. Per la prima, la democrazia doveva essere cristiana, perché se lasciato a se stesso il principio della maggioranza su cui si basa la democrazia, in quanto avulso dai criteri di verità, poteva portare a esiti deleteri; per la seconda, doveva essere popolare, cioè socialista, perché altrimenti la democrazia si sarebbe ridotta a essere strumento del capitale. In entrambi i casi, era l’aggettivo a esprimere lo scopo (cioè la sostanza, il senso) dell’azione politica, non il sostantivo.


Queste osservazioni possono forse aiutare a inquadrare meglio i principali rischi che corre la democrazia oggi. Il primo, direi, l’aveva già individuato Aristotele: è la degenerazione demagogica, l’appello al consenso popolare compiuto sfruttando le passioni e le paure più ampiamente diffuse, con effetti potentemente rafforzati dalla spettacolarizzazione della politica operata dai media. Tale degenerazione (a cui purtroppo tanto la destra quanto la sinistra danno un massiccio contributo) va perfettamente a braccetto con quell’apatia che temeva Tocqueville: ne rappresenta l’altra faccia della medaglia. La demagogia affonda infatti le radici nel terreno dell’indifferentismo. E spiana la strada, se non necessariamente alla dittatura, certo a una gestione autoritaria del potere.


Il secondo rischio mi sembra ancora più grave: nella sua lentezza costitutiva, la democrazia rischia di apparire un pachiderma preistorico a chi è abituato alla velocità della civiltà della Tecnica e, pertanto, si potrebbe essere tentati di rinunciarvi senza tanti perché. Non approfondiremo qui questo punto, perché su di esso Emanuele Severino ha scritto tante pagine illuminanti, e ad esse rimandiamo. Ma è opportuno mettere in guardia i molti blogger che affollano la convention radicale, un po’ troppo ingenuamente fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive annunciate dall’era di Internet. La retorica del nuovo socialismo tecnologico sembra riecheggiare, più o meno consciamente, certe conclusioni tratte dai fortunati libri di Jeremy Rifkin. Ma si dimentica che, da bravo marxista, Rifkin ha analizzato dialetticamente il nuovo mondo reso disponibile dalle moderne tecnologie, denunciandone con severità le derive negative, a cominciare dalla formazione di nuovi monopoli e potentati economici (AOL, Microsoft). Almeno un'altra conseguenza preoccupante va però citata: nell’era della connessione globale, l’accesso crescente all’informazione ha avuto come risultato una crescente superficialità di giudizio, quasi sempre fondato su monconi di notizie, per non dire su notizie false o manipolate. E questo non fa per nulla bene alla democrazia, che esige al contrario una partecipazione ragionata.

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