La tre giorni sulla Crisi della (non)democrazia, promossa a Roma da Radio Radicale, in collaborazione con la Fondazione per la cittadinanza attiva e l’Università popolare di Roma, focalizza l’attenzione soprattutto sull’attualità politica italiana. L’iniziativa è pregevole perché coglie un insieme assolutamente reale di segnali preoccupanti: l’indebolimento del potere legislativo del parlamento, l’abuso del ricorso al decreto legge, la mancata nomina del presidente di un organo di garanzia fondamentale come la Commissione di vigilanza sulla RAI, il collasso del sistema giudiziario (nove milioni di processi pendenti!), l’abnorme concentrazione di proprietà nelle mani del presidente del Consiglio, l’enorme diffusione dell’evasione fiscale (pari ormai a oltre il 19 per cento del PIL), la sbalordiva ramificazione del lavoro nero (quasi tre milioni di lavoratori su un totale di ventiquattro milioni non sono in regola).
Qui, tuttavia, vogliamo offrire un contributo di carattere più teorico, allargando la prospettiva alla dimensione internazionale e a quella storica. Potremmo iniziare ponendoci una domanda: ma la democrazia, considerata nei suoi aspetti costitutivi, è davvero in crisi? Se prendiamo in considerazione la democrazia formale, la risposta deve essere no. In effetti, secondo i dati offerti dalla Freedom House, il numero degli Stati che possono dirsi formalmente democratici è cresciuto in modo considerevole dalla fine della Guerra Fredda in poi, arrivando a contare circa 150 Paesi sui quasi 200 del pianeta.
Il calcolo sembra dare ragione alla tesi di Francis Fukuyama secondo cui il cammino verso la democrazia sarebbe irreversibile. Certo, non ignoro che l’opera principale del noto politologo statunitense, La fine della storia, ha sollevato molte riserve a sinistra, che sostanzialmente condivido. Eppure, rimane un dato di fatto: la democrazia ha sconfitto i sistemi antagonistici (a cominciare dal più potente dei suoi avversari: il socialismo reale di matrice sovietica), imponendosi universalmente come lo strumento più consono, anche se imperfetto, a governare i conflitti della modernità. Questo dato di fatto deve essere tenuto fermo in ogni riflessione.
Tuttavia, c’è un altro dato di cui occorre tenere conto: in tutte le democrazie occidentali, comprese quelle di più antica tradizione, il senso di insoddisfazione è andato immensamente incrementandosi nel secondo dopoguerra. Ne sono indice, fra l’altro, la scarsa partecipazione alle elezioni, e il diffondersi un po’ dappertutto, a destra, di movimenti xenofobi o neofascisti e, a sinistra, di quelle nuove forme di dissenso su cui, in Moltitudine, si sono soffermati Michael Hardt e Antonio Negri, forse ingigantendone la portata.
Insomma, la democrazia “reale” (quale si è effettivamente realizzata) ha sbaragliato sì i sistemi avversari, ma non per questo entusiasma gli animi. Anzi, si direbbe che finora non sia stata in grado di mantenere le promesse: non solo non è riuscita a garantire l’eguaglianza dei cittadini, ma addirittura si è rilevata impotente a fronteggiare la nascita di nuove sacche di privilegio e di disagio sociale, ad arginare le tendenze neofeudali della mondializzazione dei mercati e dei traffici finanziari, a salvaguardare gli abitanti del pianeta dalle ripetute crisi economiche e dall’insicurezza che ne deriva. La crisi della democrazia, oggi, è anzitutto il prodotto del mancato conseguimento di questi obiettivi, e non di un’aggressione dall’esterno, derivata da movimenti totalitari. E s’intende è una crisi che coinvolge in egual misura tanto la destra quanto la sinistra: la presidenza Clinton negli Stati Uniti, il governo Blair nel Regno Unito, quello di Prodi in Italia sono stati percepiti in termini ampiamente negativi, non diversamente dai governi conservatori che li hanno preceduti o seguiti.
Ma possiamo porci un’altra domanda: la crisi della democrazia (nei termini in cui l'abbiamo intesa) è una crisi storica, contingente e quindi emendabile, dovuta all’uso inappropriato dei suoi strumenti da parte dei governi, o è una crisi strutturale, dovuta ai suoi modi di organizzazione?
Prima di rispondere a questa domanda, tuttavia, è opportuno ricordare che i teorici della democrazia (da Montesquieu ad Alexis de Toqueville, arrivando fino a Norberto Bobbio o a Giovanni Sartori) sono accomunati da un pessimismo cosmico di fondo. Non nutrono molte illusioni sul destino umano: sono anzi ben coscienti che l’umanità non è poi questa gran cosa e che, per loro natura, gli uomini sono più propensi a una caotica bellicosità che non a un ordinato solidarismo. È significativo, per esempio, che nonostate sia stato legittimamente considerato come un prosecutore dei principi illuministici, Bobbio guardasse costantemente a Hobbes, non a Voltaire. Per lui e per tutti gli altri classici del pensiero democratico, la democrazia non ha il potere di trasformare gli uomini in esseri virtuosi, e neppure si propone di farlo (questo semmai è l’obiettivo di tutti i sistemi teocratici, confessionali o no). Si pone invece un altro scopo: controllare chi governa, e quindi controllare le maggioranze.
Eh sì, la democrazia non lascia carta bianca a nessuno, si alimenta di una sostanziale sfiducia nei confronti degli uomini e dei governanti. Sa che chi detiene il potere non sempre agisce al meglio o è il più illuminato, e sa anche che l’esercizio del potere potrebbe indurre persino il meglio intenzionato a usare la propria autorità per i suoi interessi, anziché per quelli della collettività. Come tutti gli altri regimi politici (compresa la dittatura), la democrazia ha bisogno del consenso. Ma, rispetto agli altri regimi politici, questo moderno Leviatano è l’unico ad affermare che chi detiene il potere deve essere sottoposto a un controllo istituzionalizzato. Ed è questo il fattore che più di ogni altro distingue la democrazia dagli altri regimi politici. Nel momento in cui viene meno tale controllo, viene meno anche la democrazia.
Proprio il complesso sistema procedurale che consente alla democrazia di limitare i danni che possono derivare da un cattivo utilizzo del potere ne condiziona nondimeno il funzionamento. Norberto Bobbio lo aveva detto molto bene: in una certa misura, la democrazia è sempre in crisi, lo è costitutivamente. Ovvero è sempre un po’ troppo lenta, sempre un po’ meno efficace di quanto le sfide del tempo richiederebbero. È questo limite che i grandi teorici della destra, da Karl Schmidt a Friedrich von Hayek, intendevano correggere, invocando il rafforzamento dell’esecutivo. Ed è su questo limite che, direttamente o no, fa perno la retorica dell’antidemocrazia (come la chiamava Bobbio), da sempre dilagante a destra così come a sinistra.
E qui arriviamo al paradosso più cocente e amaro: nonostante abbia sconfitto i sistemi antagonistici e nonostante sia oggi sulle labbra di tutti, la democrazia gode e ha sempre goduto di scarsissima popolarità. Un grande storico, Lewis B. Namier, ha mostrato che i moti del 1848 furono di fatto una rivoluzione degli intellettuali. Ma, più radicalmente, potremmo sostenere che la moderna democrazia è un prodotto dei ceti intellettuali: è nata aristocratica, in seno a gruppi minoritari della popolazione, e tale è rimasta (lo diciamo con dispiacere, senza alcuna adesione a forme di elitarismo sprezzante alla maniera di Ortega y Gasset). La prova sta nel fatto che, storicamente, le masse sono sempre state propense a sacrificare le prerogative della democrazia in favore di un governo forte capace di assicurare valori giudicati superiori: un tempo, la difesa dei confini o dalla paura dei rossi, oggi la sicurezza, la protezione dalla minaccia economica cinese, la salvaguardia del lavoro messo in pericolo dagli extracomunitari o dagli immigrati dell’Est, eccetera. Troppo spesso si dimentica che tanto il regime fascista quanto quello nazista e quello staliniano godettero di un favore popolare ampiamente diffuso e radicato: l’antidemocrazia, con la forza del suo immaginario e la semplicità dei suoi simboli, ha fatto spesso più proseliti della democrazia.
Un’ulteriore conferma, per restare ai fatti di casa nostra, la offre Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista di Massimo Teodori, uno dei fondatori del partito radicale (lo recensiremo prossimamente). È vero che tanto la cultura cattolica quanto quella comunista hanno contribuito in modo decisivo alla storia dell’Italia democratica. Ma per nessuna delle due la democrazia era uno scopo in sé. Piuttosto era un mezzo, da porre al servizio di quello che veniva giudicato il vero fine. Per la prima, la democrazia doveva essere cristiana, perché se lasciato a se stesso il principio della maggioranza su cui si basa la democrazia, in quanto avulso dai criteri di verità, poteva portare a esiti deleteri; per la seconda, doveva essere popolare, cioè socialista, perché altrimenti la democrazia si sarebbe ridotta a essere strumento del capitale. In entrambi i casi, era l’aggettivo a esprimere lo scopo (cioè la sostanza, il senso) dell’azione politica, non il sostantivo.
Queste osservazioni possono forse aiutare a inquadrare meglio i principali rischi che corre la democrazia oggi. Il primo, direi, l’aveva già individuato Aristotele: è la degenerazione demagogica, l’appello al consenso popolare compiuto sfruttando le passioni e le paure più ampiamente diffuse, con effetti potentemente rafforzati dalla spettacolarizzazione della politica operata dai media. Tale degenerazione (a cui purtroppo tanto la destra quanto la sinistra danno un massiccio contributo) va perfettamente a braccetto con quell’apatia che temeva Tocqueville: ne rappresenta l’altra faccia della medaglia. La demagogia affonda infatti le radici nel terreno dell’indifferentismo. E spiana la strada, se non necessariamente alla dittatura, certo a una gestione autoritaria del potere.
Il secondo rischio mi sembra ancora più grave: nella sua lentezza costitutiva, la democrazia rischia di apparire un pachiderma preistorico a chi è abituato alla velocità della civiltà della Tecnica e, pertanto, si potrebbe essere tentati di rinunciarvi senza tanti perché. Non approfondiremo qui questo punto, perché su di esso Emanuele Severino ha scritto tante pagine illuminanti, e ad esse rimandiamo. Ma è opportuno mettere in guardia i molti blogger che affollano la convention radicale, un po’ troppo ingenuamente fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive annunciate dall’era di Internet. La retorica del nuovo socialismo tecnologico sembra riecheggiare, più o meno consciamente, certe conclusioni tratte dai fortunati libri di Jeremy Rifkin. Ma si dimentica che, da bravo marxista, Rifkin ha analizzato dialetticamente il nuovo mondo reso disponibile dalle moderne tecnologie, denunciandone con severità le derive negative, a cominciare dalla formazione di nuovi monopoli e potentati economici (AOL, Microsoft). Almeno un'altra conseguenza preoccupante va però citata: nell’era della connessione globale, l’accesso crescente all’informazione ha avuto come risultato una crescente superficialità di giudizio, quasi sempre fondato su monconi di notizie, per non dire su notizie false o manipolate. E questo non fa per nulla bene alla democrazia, che esige al contrario una partecipazione ragionata.