venerdì 1 aprile 2011

Zoro, la sinistra che ride

Diego Bianchi, in arte Zoro, è un caratterista di rango. Fattosi conoscere inizialmente tra i frequentatori del web per la sua stralunata quanto intelligente comicità politica, si è poi conquistato un meritato spazio in Tv, e oggi rappresenta una delle firme di punta del programma di Serena Dandini, Parla con me. Al di là delle indubbie doti tecniche (è allo stesso tempo regista, sceneggiatore e attore), il suo merito sta nell’aver dato vita a un personaggio che, sdoppiandosi o triplicandosi, riflette le inquietudini dell’odierna sinistra postproletaria e postcomunista: diciamo pure un Bobo del Duemila.
La creatura di Sergio Staino mi sembra il punto di riferimento più adeguato. Oltre alla classe sociale (l’appartenenza all’élite dei ceti medi: una piccola borghesia meditabonda e informata), i personaggi di Bianchi condividono con Bobo l’approccio alla politica, calibrato sui modi di uno scetticismo ironico ma cordiale. È l’atteggiamento di chi uno slancio vitale lo conserva, e non aspetta altro che un segnale di rinnovamento, una chiamata in causa, per dire: eccomi, io ci sono. Anche se, nello stesso tempo, non può fare a meno di ragionare sui limiti dell’azione collettiva cui aderisce o simpatizza. Insomma, un personaggio intimamente pirandelliano: attore e insieme spettatore cerebrale. 
Altrettanto marcata è tuttavia la differenza: Bobo è pienamente integrato in un nucleo familiare, al cui interno si riflettono tutte le contraddizioni di una società in rapida trasformazione. I personaggi di Zoro sono invece giovani flâneur che scorazzano per le strade o per le reti televisive sempre soli, single a oltranza. Dei loro rapporti affettivi o familiari nulla ci viene mostrato o riferito. Gli stessi dialoghi presentano un forte carattere di ambiguità. Quelli inscenati dall’autore sono giovani amici che conversano fra loro sui fatti di cronaca o sono invece personificazioni delle alterne voci di un discorso interiore, una specie di coscienza collettiva socialista? Dipende. Nei video più inclini a un bozzettismo caricaturale di stampo realista (come quelli sul congresso del Pd o sul porta a porta o sulle firme per cacciare Berlusconi), propenderei per la prima risposta. In quelli che sconfinano nella divagazione surrealista, per la seconda.
Comunque, ad affiorare è un rapporto complesso e contraddittorio con il Pd. Il punto di vista adottato è quello di un giovane uomo del tutto insensibile agli schematismi ideologici, eppure decisamente, sicuramente, orgogliosamente di sinistra. E per questo si ribella ai tentennamenti o alle incertezze di un partito che gli sembra troppo zavorrato dalle manfrine degli ex margheritini o dagli show di Veltroni che spedirebbe senza tanti complimenti in Africa. Nella settantesima puntata arriva addirittura a esprimere una provocatoria nostalgia per il vecchio Pci. 
E la cosa non manca di suscitare stupore. Perché, per ragioni anagrafiche, Bianchi (classe 1969) può aver conosciuto in modo diretto solo l’ultima fase della parabola comunista: quella non proprio gloriosa di Natta e di Occhetto. Eppure i suoi video lasciano trasparire una frequentazione assidua della storia e della cultura del movimento socialista. In questo senso, il suo destinatario elettivo è anzitutto un pubblico più vecchio di lui: lo zoccolo duro di Rai 3, quelli che sono stati giovani prima del berlusconismo e che conservano il ricordo di un’altra stagione, certo non proprio migliore della presente e viva (prima di Berlusconi c’era un’altra mostruosità italiana, chiamata Dc!), nella quale nondimeno si poteva ancora legittimamente coltivare una speranza in un futuro collettivo migliore.
Ma Bianchi riesce a intercettare anche un altro tipo di destinatario, a lui coetaneo o più giovane. Chiamiamoli gli smanettoni di internet. Ma la componente che meglio li accomuna non è tanto la familiarità disinvolta con gli strumenti della moderna tecnologia di cui noi postgiovani ci siamo invece appropriati a fatica. No, è piuttosto lo sconforto disilluso e nichilista con cui giudicano il nostro mondo. Non parlerei neppure di disperazione, perché per essere disperati bisogna aver avuto una speranza. Piuttosto costoro hanno precocemente imparato che è meglio non farsi illusioni perché la porzione di storia che hanno di fronte ai loro occhi dimostra che troppo spesso, se le cose cambiano, cambiano in peggio.
A questo pubblico disilluso, Bianchi offre un prezioso strumento di riscatto: l’umorismo. Anzi, doppiamente prezioso. Perché l’umorismo consente di mettere alla berlina le storture di chi si nasconde dietro una pomposa quanto vuota retorica del fare (che poi è un non fare). Ma consente anche di ridere dei propri irrigidimenti, e quindi di riscoprire una disponibilità a interessarsi in modo critico dei destini contemporanei, senza autoinganni ma senza neppure chiusure solipsistiche.

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