martedì 31 marzo 2009

La morte nell’epoca della vita tecnologica

di Susanna Janina Baumgartner

La morte si innalza a simbolo della negatività nella società moderna e il momento della morte non è più senza controllo, perché si può disporre della più recente tecnologia medica per mantenere in vita un uomo con respirazione, circolazione e nutrizione mantenute artificialmente. Questo possibile controllo sulla morte rende la società responsabile della fine o durata di un uomo o del suo corpo.

Werner Fuchs, in Le immagini della morte nella società moderna, scrive che nella moderna società industriale alla morte si è tolto il suo ruolo di motivo centrale della vita e che nella contrapposizione fra immagini della morte magico-arcaiche e moderne-razionali, assume speciale importanza il concetto di morte naturale.
Ancora oggi la morte rappresenta la natura nella sua forma più cruda e solo la morte che interviene in seguito a indebolimento senile dovrebbe essere indicata come conclusione della vita conforme alla natura. La morte non appare più come demone o divinità, come forza dell’aldilà, ma come legge naturale. Francesco Bacone considerava l’atto del morire non meno naturale del nascere.
Il sezionamento dei cadaveri allo scopo della ricerca e dell’insegnamento scientifico presuppone la possibilità di usare un corpo non più in vita come se si trattasse di una cosa.
Se da un lato il concetto di morte per cause naturali permette l’uso del cadavere come materiale di ricerca, consente anche la protesta nei confronti del momento in cui la morte si verifica, la protesta contro la brevità della vita. Il dominio sulla natura, intimamente legato alla storia della medicina, acquista il carattere di prevenzione della morte e si impone la morte naturale come regola; a ogni essere umano deve essere possibile spegnersi alla fine delle proprie forze, godere fino in fondo delle proprie potenzialità biologiche, senza violenza o malattia o morte precoce. Sigmund Freud ci ha fatto notare la nostra aspirazione a ridurre la morte da necessità a casualità, rivelandoci l’utopia di una morte che sia realmente naturale. La morte ci appare infatti più spesso causata dall’insufficienza delle istituzioni mediche che non da una legge naturale.
Quale può essere quindi un morire socialmente accettato che sia in grado di rispettare l’individuo e la sua morte? La morte è una delle condizioni naturali che mette in maggior evidenza il carattere di estrema individualità e nello stesso tempo la sua costituzione sociale. Il rapporto dell’individuo con la morte è un mistero e insieme un comportamento socialmente mediato, come ci ricorda Christian von Ferber. Mantiene la tensione tra individuo e società, riesce a stabilire distanza tra ruoli sociali e portatori di essi, relativizza le pretese della società che tende al totalitarismo.
Anche Eugen Gürster evoca la morte come garante contro la perdita di individualità, perché non solo annienta gli individui, ma li libera anche dall’intreccio delle costrizioni sociali, garantisce la liberazione. E la costanza della morte relativizza il progresso, rende manifesta l’impotenza umana.
La morte (Jacques Derrida, Il tempo degli addii) è l’evento che un vivente sempre vede venire senza mai vederlo venire, senza prevederlo, senza mai sapere e potere su esso, in un luogo che resta quello dell’impotere e dell’impossibile. L’evento che non si vede venire, non arriva necessariamente da dietro o dall’alto, ma dal dentro, da un dentro del dentro che mai si convertirebbe in un fuori. Bisognerebbe allora emancipare ciò che arriva, il concetto stesso di evento, da ogni legame con l’avvenire.
«Può mai, un soggetto in quanto tale, decidere di checchessia? Come tutto ciò che gli accade, la sua “propria” decisione non deve colpirlo dall’Altro, come la decisione, sempre, e sempre esplosiva, dell’altro in lui? è una follia, lei dirà, quest’esperienza di una passività, in rapporto alla propria decisione, una decisione di cui rivendico o assumo liberamente la responsabilità. A meno che questo non sia l’impossibile? Ma cos’è che può arrivare d’altro ad un soggetto?»
«D’altra parte, il carattere tragico della solitudine deriva forse dal nulla, o dalla privazione di altri (altrui) che la morte sottolinea?» (Emmanuel Lévinas, Il Tempo e l’Altro). Nel fenomeno della morte la solitudine si trova sul limitare di un mistero, in relazione con l’altro e il tempo. Gli esseri, scrive Lévinas, possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. Se qualcosa è incomunicabile, lo è perché è radicato nel mio essere ed è quanto di più privato c’è in me.
Nella sofferenza c’è l’impossibilità di distaccarsi da essa, di fuggire, c’è il fatto di essere direttamente esposti all’essere, è l’impossibilità del nulla. Ma c’è nella sofferenza anche la prossimità della morte, l’ignoto che caratterizza la morte e che non si dà come nulla, ma è invece correlativo ad un’esperienza dell’impossibilità del nulla.
Questo modo caratteristico della morte di annunciarsi nella sofferenza, è un’esperienza della passività del soggetto che fino ad allora era stato attivo. La morte annuncia un evento che il soggetto non è in grado di dominare, un evento in rapporto al quale il soggetto non è più soggetto.
Un evento ci accade senza che noi possiamo disporre assolutamente di nulla; la morte è l’impossibilità di avere un progetto, un avvenire. E l’avvenire è l’altro. L’esistenza si fa pluralistica all’interno dell’atto di esistere. «Ma la morte delineata in termini di alterità, come alienazione della mia esistenza, potrà ancora essere la mia morte?»
Se il soggetto può, nella passività dell’evento della morte, porsi comunque di fronte all’evento, lo può fare in un faccia a faccia con altri (altrui) che può entrare in relazione con il presente; e lo sconfinamento del presente nell’avvenire non fa parte di un soggetto solo, ma è la relazione intersoggettiva. Vincere la morte significa avere con l’alterità dell’evento una relazione che deve essere ancora personale, una relazione con altri. L’altro è colui che chiama e la morte è la scomparsa, negli esseri, di quei movimenti espressivi che li facevano apparire come viventi, movimenti che sono sempre delle risposte. La morte è il senza risposta che intacca autonomia o espressività di movimenti e che oscura il volto.
Ma è proprio l’alterità della morte che fa esplodere la presenza. L’altro non è mai presente, disponibile, comprensibile. Come prendere o dare congedo? Il congedo che si prende o si dà, è la possibilità, se non addirittura il permesso di passare, di andare.
«Non c’è avvenire senza congedo. Dunque senza questa separazione alla partenza che chiamiamo addio» (Jacques Derrida, Il tempo degli addii).

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