venerdì 3 ottobre 2008

Il paradosso della democrazia

La tre giorni sulla Crisi della (non)democrazia, promossa a Roma da Radio Radicale, in collaborazione con la Fondazione per la cittadinanza attiva e l’Università popolare di Roma, focalizza l’attenzione soprattutto sull’attualità politica italiana. L’iniziativa è pregevole perché coglie un insieme assolutamente reale di segnali preoccupanti: l’indebolimento del potere legislativo del parlamento, l’abuso del ricorso al decreto legge, la mancata nomina del presidente di un organo di garanzia fondamentale come la Commissione di vigilanza sulla RAI, il collasso del sistema giudiziario (nove milioni di processi pendenti!), l’abnorme concentrazione di proprietà nelle mani del presidente del Consiglio, l’enorme diffusione dell’evasione fiscale (pari ormai a oltre il 19 per cento del PIL), la sbalordiva ramificazione del lavoro nero (quasi tre milioni di lavoratori su un totale di ventiquattro milioni non sono in regola).


Qui, tuttavia, vogliamo offrire un contributo di carattere più teorico, allargando la prospettiva alla dimensione internazionale e a quella storica. Potremmo iniziare ponendoci una domanda: ma la democrazia, considerata nei suoi aspetti costitutivi, è davvero in crisi? Se prendiamo in considerazione la democrazia formale, la risposta deve essere no. In effetti, secondo i dati offerti dalla Freedom House, il numero degli Stati che possono dirsi formalmente democratici è cresciuto in modo considerevole dalla fine della Guerra Fredda in poi, arrivando a contare circa 150 Paesi sui quasi 200 del pianeta.

Il calcolo sembra dare ragione alla tesi di Francis Fukuyama secondo cui il cammino verso la democrazia sarebbe irreversibile. Certo, non ignoro che l’opera principale del noto politologo statunitense, La fine della storia, ha sollevato molte riserve a sinistra, che sostanzialmente condivido. Eppure, rimane un dato di fatto: la democrazia ha sconfitto i sistemi antagonistici (a cominciare dal più potente dei suoi avversari: il socialismo reale di matrice sovietica), imponendosi universalmente come lo strumento più consono, anche se imperfetto, a governare i conflitti della modernità. Questo dato di fatto deve essere tenuto fermo in ogni riflessione.

Tuttavia, c’è un altro dato di cui occorre tenere conto: in tutte le democrazie occidentali, comprese quelle di più antica tradizione, il senso di insoddisfazione è andato immensamente incrementandosi nel secondo dopoguerra. Ne sono indice, fra l’altro, la scarsa partecipazione alle elezioni, e il diffondersi un po’ dappertutto, a destra, di movimenti xenofobi o neofascisti e, a sinistra, di quelle nuove forme di dissenso su cui, in Moltitudine, si sono soffermati Michael Hardt e Antonio Negri, forse ingigantendone la portata.


Insomma, la democrazia “reale” (quale si è effettivamente realizzata) ha sbaragliato sì i sistemi avversari, ma non per questo entusiasma gli animi. Anzi, si direbbe che finora non sia stata in grado di mantenere le promesse: non solo non è riuscita a garantire l’eguaglianza dei cittadini, ma addirittura si è rilevata impotente a fronteggiare la nascita di nuove sacche di privilegio e di disagio sociale, ad arginare le tendenze neofeudali della mondializzazione dei mercati e dei traffici finanziari, a salvaguardare gli abitanti del pianeta dalle ripetute crisi economiche e dall’insicurezza che ne deriva. La crisi della democrazia, oggi, è anzitutto il prodotto del mancato conseguimento di questi obiettivi, e non di un’aggressione dall’esterno, derivata da movimenti totalitari. E s’intende è una crisi che coinvolge in egual misura tanto la destra quanto la sinistra: la presidenza Clinton negli Stati Uniti, il governo Blair nel Regno Unito, quello di Prodi in Italia sono stati percepiti in termini ampiamente negativi, non diversamente dai governi conservatori che li hanno preceduti o seguiti.


Ma possiamo porci un’altra domanda: la crisi della democrazia (nei termini in cui l'abbiamo intesa) è una crisi storica, contingente e quindi emendabile, dovuta all’uso inappropriato dei suoi strumenti da parte dei governi, o è una crisi strutturale, dovuta ai suoi modi di organizzazione?


Prima di rispondere a questa domanda, tuttavia, è opportuno ricordare che i teorici della democrazia (da Montesquieu ad Alexis de Toqueville, arrivando fino a Norberto Bobbio o a Giovanni Sartori) sono accomunati da un pessimismo cosmico di fondo. Non nutrono molte illusioni sul destino umano: sono anzi ben coscienti che l’umanità non è poi questa gran cosa e che, per loro natura, gli uomini sono più propensi a una caotica bellicosità che non a un ordinato solidarismo. È significativo, per esempio, che nonostate sia stato legittimamente considerato come un prosecutore dei principi illuministici, Bobbio guardasse costantemente a Hobbes, non a Voltaire. Per lui e per tutti gli altri classici del pensiero democratico, la democrazia non ha il potere di trasformare gli uomini in esseri virtuosi, e neppure si propone di farlo (questo semmai è l’obiettivo di tutti i sistemi teocratici, confessionali o no). Si pone invece un altro scopo: controllare chi governa, e quindi controllare le maggioranze.


Eh sì, la democrazia non lascia carta bianca a nessuno, si alimenta di una sostanziale sfiducia nei confronti degli uomini e dei governanti. Sa che chi detiene il potere non sempre agisce al meglio o è il più illuminato, e sa anche che l’esercizio del potere potrebbe indurre persino il meglio intenzionato a usare la propria autorità per i suoi interessi, anziché per quelli della collettività. Come tutti gli altri regimi politici (compresa la dittatura), la democrazia ha bisogno del consenso. Ma, rispetto agli altri regimi politici, questo moderno Leviatano è l’unico ad affermare che chi detiene il potere deve essere sottoposto a un controllo istituzionalizzato. Ed è questo il fattore che più di ogni altro distingue la democrazia dagli altri regimi politici. Nel momento in cui viene meno tale controllo, viene meno anche la democrazia.

Proprio il complesso sistema procedurale che consente alla democrazia di limitare i danni che possono derivare da un cattivo utilizzo del potere ne condiziona nondimeno il funzionamento. Norberto Bobbio lo aveva detto molto bene: in una certa misura, la democrazia è sempre in crisi, lo è costitutivamente. Ovvero è sempre un po’ troppo lenta, sempre un po’ meno efficace di quanto le sfide del tempo richiederebbero. È questo limite che i grandi teorici della destra, da Karl Schmidt a Friedrich von Hayek, intendevano correggere, invocando il rafforzamento dell’esecutivo. Ed è su questo limite che, direttamente o no, fa perno la retorica dell’antidemocrazia (come la chiamava Bobbio), da sempre dilagante a destra così come a sinistra.

E qui arriviamo al paradosso più cocente e amaro: nonostante abbia sconfitto i sistemi antagonistici e nonostante sia oggi sulle labbra di tutti, la democrazia gode e ha sempre goduto di scarsissima popolarità. Un grande storico, Lewis B. Namier, ha mostrato che i moti del 1848 furono di fatto una rivoluzione degli intellettuali. Ma, più radicalmente, potremmo sostenere che la moderna democrazia è un prodotto dei ceti intellettuali: è nata aristocratica, in seno a gruppi minoritari della popolazione, e tale è rimasta (lo diciamo con dispiacere, senza alcuna adesione a forme di elitarismo sprezzante alla maniera di Ortega y Gasset). La prova sta nel fatto che, storicamente, le masse sono sempre state propense a sacrificare le prerogative della democrazia in favore di un governo forte capace di assicurare valori giudicati superiori: un tempo, la difesa dei confini o dalla paura dei rossi, oggi la sicurezza, la protezione dalla minaccia economica cinese, la salvaguardia del lavoro messo in pericolo dagli extracomunitari o dagli immigrati dell’Est, eccetera. Troppo spesso si dimentica che tanto il regime fascista quanto quello nazista e quello staliniano godettero di un favore popolare ampiamente diffuso e radicato: l’antidemocrazia, con la forza del suo immaginario e la semplicità dei suoi simboli, ha fatto spesso più proseliti della democrazia.


Un’ulteriore conferma, per restare ai fatti di casa nostra, la offre Storia dei laici nell’Italia clericale e comunista di Massimo Teodori, uno dei fondatori del partito radicale (lo recensiremo prossimamente). È vero che tanto la cultura cattolica quanto quella comunista hanno contribuito in modo decisivo alla storia dell’Italia democratica. Ma per nessuna delle due la democrazia era uno scopo in sé. Piuttosto era un mezzo, da porre al servizio di quello che veniva giudicato il vero fine. Per la prima, la democrazia doveva essere cristiana, perché se lasciato a se stesso il principio della maggioranza su cui si basa la democrazia, in quanto avulso dai criteri di verità, poteva portare a esiti deleteri; per la seconda, doveva essere popolare, cioè socialista, perché altrimenti la democrazia si sarebbe ridotta a essere strumento del capitale. In entrambi i casi, era l’aggettivo a esprimere lo scopo (cioè la sostanza, il senso) dell’azione politica, non il sostantivo.


Queste osservazioni possono forse aiutare a inquadrare meglio i principali rischi che corre la democrazia oggi. Il primo, direi, l’aveva già individuato Aristotele: è la degenerazione demagogica, l’appello al consenso popolare compiuto sfruttando le passioni e le paure più ampiamente diffuse, con effetti potentemente rafforzati dalla spettacolarizzazione della politica operata dai media. Tale degenerazione (a cui purtroppo tanto la destra quanto la sinistra danno un massiccio contributo) va perfettamente a braccetto con quell’apatia che temeva Tocqueville: ne rappresenta l’altra faccia della medaglia. La demagogia affonda infatti le radici nel terreno dell’indifferentismo. E spiana la strada, se non necessariamente alla dittatura, certo a una gestione autoritaria del potere.


Il secondo rischio mi sembra ancora più grave: nella sua lentezza costitutiva, la democrazia rischia di apparire un pachiderma preistorico a chi è abituato alla velocità della civiltà della Tecnica e, pertanto, si potrebbe essere tentati di rinunciarvi senza tanti perché. Non approfondiremo qui questo punto, perché su di esso Emanuele Severino ha scritto tante pagine illuminanti, e ad esse rimandiamo. Ma è opportuno mettere in guardia i molti blogger che affollano la convention radicale, un po’ troppo ingenuamente fiduciosi nelle magnifiche sorti e progressive annunciate dall’era di Internet. La retorica del nuovo socialismo tecnologico sembra riecheggiare, più o meno consciamente, certe conclusioni tratte dai fortunati libri di Jeremy Rifkin. Ma si dimentica che, da bravo marxista, Rifkin ha analizzato dialetticamente il nuovo mondo reso disponibile dalle moderne tecnologie, denunciandone con severità le derive negative, a cominciare dalla formazione di nuovi monopoli e potentati economici (AOL, Microsoft). Almeno un'altra conseguenza preoccupante va però citata: nell’era della connessione globale, l’accesso crescente all’informazione ha avuto come risultato una crescente superficialità di giudizio, quasi sempre fondato su monconi di notizie, per non dire su notizie false o manipolate. E questo non fa per nulla bene alla democrazia, che esige al contrario una partecipazione ragionata.

4 commenti:

Truman ha detto...

Una lunga premessa e poche conclusioni. Il che potrebbe star bene come introduzione a un dibattito. Anche il cenno a internet, eccessivamente mitizzato, avrebbe senso. Però si dimentica di evidenziare gli effetti potentemente democratici del web. La cominicazione diventa davvero paritaria e questo a molti teorici della democrazia dà fastidio.

Manca poi un cenno alla democrazia diretta. Eppure il vantaggio delel nuove tecnologie è proprio il fatto che per molte decisioni si potrebbe fare a meno della rappresentanza.

Sarebbe poi il caso di ricordare che nell'antica Atene non c'era la rappresentanza ma c'era l'ostracismo.

Si dovrebbe anche ricordare che molti difetti della democrazia riappaiono ciclicamente, perchè il potere tende a svuotare di significato le istituzioni democratiche, le fa diventare rappresentazione. Lo spiegava bene Jacques Ellul.

Allora il popolo tende ad inventare nuovi metodi per partecipare alle scelte statali. Il parlamento nacque per limitare il sovrano. Fu progressivamente svuotato di significato. Già Mosca e Michels ne parlavano un secolo fa.
La stampa irruppe nell'arena politica alterando i rapporti di forza. Poi anch'essa è stata svuotata.

Oggi è internet che può portare novità. Per questo i chierici ne parlano sempre male. Per difendere i poteri costituiti, anche occulti, contro il popolo.

Giuseppe Gallo ha detto...

Mi perdonerà, ma a commento di questo articolo la sua firma (nome o pseudonimo) colpisce parecchio. Lo dico perché sono sicuro che non mi fraintende. E' inevitabile però che venga alla memoria il 33° presidente degli Stati Uniti, Harry S. Truman. È quello che autorizzò lo sguancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. Nel dopoguerra fu poi artefice di un radicale cambio di rotta della politica estera statunitense, sostenendo che la sua nazione doveva intervenire a livello mondiale per contrastare l'avanzata del comunismo. In questo quadro, si inserivano tanto gli aiuti all'Europa fissati dal piano Marshall, quanto la creazione della Nato e l'avvio (a fine mandato) della caccia alle streghe che caratterizzò il maccartismo.

Naturalmente, si potrebbe ricordare anche il celebre film di Peter Weir: una severa critica della realtà virtuale prodotta dal sistema televisivo. Anche in questo caso, considerati i temi affrontati, la coincidenza è curiosa. Cito questi riferimenti, sia chiaro, solo perché potrebbero suggerire ulteriori spunti di riflessioni, e per nessun’altra ragione. (Il ricordo che più mi è caro però non è attinente a questo articolo. Si tratta di Truman Capote, autore fra l’altro di "Colazione da Tiffany")

Detto ciò, guardi che un anno fa abbiamo aperto "Fuori Margine" perché riteniamo che un blog possa offrire preziose occasioni di dialogo: se così non fosse, avremmo fatto altro. Siamo tutt’altro che ostili al web. Ciò però non autorizza nessun atteggiamento di acriticismo, che invece è prevalente riguardo alle nuove tecnologie. Lei afferma che i chierici parlano sempre male di Internet. Ma è vero il contrario: sono dieci anni che sentiamo annunciare da tutti i pulpiti la grande rivoluzione informatica capace di garantire il paradiso in Terra. Dato il vocabolo usato, lei ha sicuramente letto "Il tradimento dei chierici" di Julien Benda. Ebbene a quale potere sono oggi asserviti i chierici se non proprio a quello della Tecnica?

Sulla democrazia diretta, ho molti dubbi. Potrei ricordarle che in Svizzera, dove gli elettori sono spesso chiamati a esprimersi mediante referendum (appunto uno strumento di democrazia diretta), l'affluenza alle urne è quanto mai esigua. In Italia, la partecipazione sarebbe senz’altro maggiore. Ma poniamo che si andasse a votare per decidere se sgomberare o no un campo nomadi, per cacciare o no gli extracomunitari, per fare guerra o no all’Iran… Lei è proprio sicuro che i risultati le sarebbero graditi?

D’altra parte, non riesco bene a capire cosa voglia dire che “si potrebbe fare a meno della rappresentanza”. Chi dovrebbe assumersi la responsabilità di stendere un bilancio? Chi sarebbe autorizzato a trattare con Lufthansa o Air France? Chi dovrebbe stendere le linee di politica estera? Il popolo? La maggioranza degli elettori? Mah! Oppure una persona nominata ad hoc di volta in volta? E non sarebbe rappresentanza anche questa?

Truman ha detto...

Per il nickname è la seconda delle ipotesi.

Per quanto riguarda le nuove tecnologie di comunicazione (prevalentemente internet, ma ricordando che Aznar cadde per colpa - o merito - degli SMS) il discorso è effettivamente complesso. Ci sono due atteggiamenti su internet, entrambi errati: il primo è quello di molti teorici della comunicazione da Mc Luhan, a De Kerckove, a Castells, che lo mitizzano come un indubbio progresso; l'altro è quello che viene narrato implicitamente tutti i giorni negli old media, i rischi di violazioni della privacy, i rischi di cattive conoscenze, i rischi di incontrare pedofili in rete. In questo secondo caso l'attacco è incessante, perchè internet mette paura a chi vive sugli old media. L'approccio più equilibrato mi appare quello che fa riferimento a Geert Lovink e Rossiter, che evidenzia alcuni aspetti nichilistici del web, ma anlizza con cura i possibili impatti sul politico. Ci sono effettivamente potenzialità rivoluzionarie, ma vanno sapute sfruttare. I chierici molto spesso ripetono quello che sentono dire, non fanno ricerca, si adeguano ed in definitiva sostengono il potere.

Un aspetto di internet che sarebbe facile sfruttare potrebbe essere quello di un voto elettronico (da casa) su tutti i temi di interesse pubblico. E qui approvo parzialmente le sue considerazioni, a volte il popolo vuole delegare, ma molte volte vorrebbe partecipare quando invece viene chiamato a firmare deleghe in bianco (le ultime elezioni politiche, con i candidati fissati dai partiti, sono un esempio).
Insomma il mezzo consentirebbe (ricordare al possibilità di firma elettronica) di far partecipare realmente il popolo alle scelte. La percentuale reale di partecipazione dipenderebbe molto da quanto il popolo verrebbe effettivamente coinvolto.

Tocca scendere in dettaglio: con una democrazia di tipo elettronico, in cui tutte le leggi vengono approvate o rifiutate dai cittadini, si tenderebbe a leggi chiare, sul modello anglosassone, più che ai cavilli ereditati dai bizantini. Sempre se si volesse far partecipare il popolo.

Ma il problema in discussione è proprio questo: si può spingere i new media per nuove forme di partecipazione, oppure si può chiacchierare su inconcludenti mitizzazioni da una parte e demonizzazioni dall'altra, ambedue che mantengono i poteri esistenti.

Insomma, vero, nell'immediato la rappresentanza non può essere totalmente abolita, ma si può tendere verso una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica, oppure si può fare in modo da emerginarli perchè non disturbino il conducente. Non credo ci siano dubbi su quale delle due scelte sia buona politica.

Giuseppe Gallo ha detto...

La replica è interessante e ben argomentata. Sostanzialmente, condivido quello che lei scrive. Le faccio solo un appunto: Aznar perse le elezioni perché troppo frettolosamente attribuì all’Eta la responsabilità degli attentati alle stazioni ferroviarie di Madrid. Gli SMS furono solo il mezzo con cui i simpatizzanti del PSOE denunciarono la strumentalità di quella fretta. Senza quell’errore, gli SMS non sarebbero serviti a niente: Aznar avrebbe vinto comunque, secondo le previsioni.

Ma veniamo al cuore del problema. Lei dice: Internet e le nuove tecnologie consentono procedure inedite che incrementano la partecipazione dei cittadini. E cioè permettono agli elettori di decidere su una grande varietà di temi. Benissimo. Su questo siamo d’accordo. Tutto ciò che amplia la partecipazione non può che essere giudicato positivamente dal punto di vista della democrazia.

La sua osservazione tuttavia lascia irrisolti i problemi che avevo cercato di sollevare nel mio articolo.

1) Non c’è nessuna legge terrena o divina che garantisce che la maggioranza degli elettori scelga per il meglio. Anzi, gli elettori potrebbero essere indotti dalla paura o dall’interesse a scegliere soluzioni distruttive (è già capitato nella storia recente). La democrazia parlamentare è così lenta e bizantina (come dice lei) proprio per porre un argine all’errore e alla violenza. Il problema si ripresenta anche nella democrazia tecnologica vagheggiata da lei. Cosa succederebbe se, per far fronte alla minaccia extracomunitaria, gli elettori chiedessero a maggioranza l’instaurazione di uno stato di polizia o, per disincentivare il crimine, chiedessero il reintegro della pena di morte? I padri della democrazia erano pessimisti o, meglio, realisti: sapevano che gli uomini non sono mossi dall’amore reciproco e anzi si contendono con le unghie le poche risorse di cui dispone il nostro pianeta (homo homini lupus). Io terrei conto di questa lezione. Un buon regime politico è quello che per prima cosa si propone di limitare gli effetti dannosi che possono derivare da un cattivo esercizio del potere (sia pure quello gestito direttamente dalle masse).

2) Un’eventuale democrazia tecnologica lascerebbe poi intatto l’altro pericolo che corrono le democrazie: l’indifferentismo, l’apatia, la demagogia. Poniamo pure che gli elettori rispondano al suo appello e accettino ogni volta di pigiare un tasto del computer per esprimere la loro opinione. Comunque, come nella democrazia parlamentare, si può votare in modo ragionato, informandosi sui problemi in discussione, oppure si può votare con noia, convinti che comunque non cambierà nulla. E la noia è sempre l’anticamera dell’autoritarismo. Insomma, chi si approfitta dell’apatia generale in una democrazia parlamentare per perseguire i propri interessi se ne approfitterà con efficacia forse anche maggiore in una democrazia tecnologica. Ricordo che il fascismo fu un fenomeno di massa che trasse immenso vantaggio dalla rivoluzione tecnologica del tempo: la radio.

Intendiamoci: dico queste cose non per denigrare le nuove tecnologie. Le dico per far notare che anche il ricorso alle nuove tecnologie imporrebbe di affrontare questi problemi, che richiedono una soluzione non tecnica.

Su un punto invece dissento radicalmente: la frequenza della partecipazione. Lei lascia intendere che quanto più io elettore partecipo meglio è. Ma in base a quale criterio? Io posso avere un’opinione ragionata solo su un numero esiguo di problemi. Come mi devo comportare negli altri casi? Partecipare assorbe tempo ed energie. Non voglio che la mia mente sia costantemente assorbita dai problemi politici, perché questo vorrebbe dire vivere in un regime totalitario. No, io voglio riservare una parte del mio tempo libero a valori superiori alla politica: gli affetti, la lettura, l’arte, la musica, il teatro, il cinema, eccetera.

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