lunedì 19 novembre 2007

Le sorelle di Čechov

Era da almeno una dozzina d’anni che non rivedevo Le tre sorelle di Anton Čechov. E, se avevo ben presente la storia, non ricordavo tuttavia quant’è potente la sua carica innovativa. Questo capolavoro della drammaturgia contemporanea è un vero e proprio concentrato di modernità. Non ha perso niente della sua freschezza. Ne rende pienamente conto la regia di Massimo Castri, che riesce a tenere insieme tutti i complessi fili del racconto, senza lasciare che un tema prenda il sopravvento sull’altro.

Il testo, del resto, richiede uno sforzo di recitazione fuori del comune. Sarebbe fin troppo facile affogare la poetica čechoviana nel minimalismo o eccedere in certe accensioni melodrammatiche. In questo, Castri è stato più che convincente, è riuscito a tirare fuori il massimo dai suoi attori: capaci di reggere alle tante sfumature del testo e di variare impeccabilmente l’intonazione della voce o i gesti a seconda del registro, che spazia dal drammatico all’umoristico a una fragorosa vivacità da operetta (commovente per bellezza l’uscita di scena a metà del primo dei due atti in cui è stato ridotto il dramma, originariamente in quattro).

Sulle Tre sorelle si è scritto molto. Perciò, mi permetto di concedermi un gioco: il gioco delle associazione letterarie. Me ne sono venute in mente tante, durante lo spettacolo. Ne cito qui qualcuna, perché esercizi di tale genere aiutano a riflettere sull’unità culturale dell’Europa e sul suo senso della crisi. Incomincio da Madame Bovary.

L’insofferenza per la monotonia della vita in provincia e l’ansia di un altrove morale che accomuna le sorelle Prozorov («Andare a Mosca! Vendere la casa, liquidare tutto qui, e via a Mosca!») è comune al grande personaggio di Flaubert, ed esprime la nostalgia di una pienezza esistenziale che continua a essere attesa e rincorsa, ma che non sarà mai trovata perché, in realtà, appartiene al passato, a quel paradiso perduto che è l’infanzia.

A differenza di Flaubert, tuttavia, Čechov ha studiato da medico, come Freud: ragiona da scienziato, in modo analitico. Deve accertare tutte le possibilità fenomenologiche: non gli basta un solo personaggio per investigare la psiche (scrive del resto nel 1901, un anno dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni). Deve moltiplicarlo, per ambizione di completezza. Ol’ga, Maša, Irina e il fratello Andrej hanno lo stesso DNA, sono parte di un comune destino. Ma, nel contempo, di quel destino mettono in luce aspetti differenti: rappresentano diverse sfaccettature della medesima psiche collettiva.

L’essenziale scenografia evidenzia molto bene le tensioni del mondo familiare in cui si trovano a vivere. Per tutto il dramma, la scena è occupata da pochissimi oggetti: un grosso tavolo rotondo, una dozzina di sedie e altrettante valigie. La simbologia è chiara. Da una parte, il radicamento vissuto come costrizione metafisica (le sedie che trattengono i personaggi , in una casa spaziosa quanto asfittica). Dall’altra, il desiderio di cambiamento, la prossimità di una partenza sognata e sempre rimandata.

Ma quelle valigie mi richiamano alla memoria anche En attendant Godot. L’attesa è uno dei temi centrali della letteratura novecentesca (e si potrebbero ricordare tanti altri titoli, a partire da Il deserto dei tartari di Buzzati). Non mi meraviglierei se, in qualche modo, il dramma di Čechov avesse contribuito a ispirare Beckett. Il raffronto è meno azzardato di quanto sembri. Ci sono tante battute che sembrano anticipare il teatro dell’assurdo (un esempio: «Se la stazione fosse vicina non sarebbe lontana, ed essendo lontana non è vicina», afferma Solënyj). E le discussioni fra le sorelle e i loro ospiti attorno a quella grossa tavola, per la loro inconsistenza quotidiana e l’impossibilità di una reale comunicazione, sembrano tanto anticipare i colloqui strampalati della Cantatrice calva di Ionesco. Forse è solo una mia suggestione. Eppure, è difficile non intravedere nelle Tre sorelle anche potenzialità di tale genere.

Certo, Čechov non può portare alle estreme conseguenze le novità della sua fantasia creatrice. Ha una formazione ottocentesca, rimane al di qua dell’avanguardia: avverte il bisogno di dare un ordine circolare alla sua storia. Il suo intento è quello di proporre un’aggiornata Comédie humaine. Assolutamente esplicita. Non a caso, il medico Čebutykin, leggendo il giornale, afferma meravigliato: «Balzac si è sposato a Berdicev.» È il riconoscimento, naturalmente ironico, di un’eredità culturale.

D’altronde, come Balzac, anche Čechov non può ignorare la realtà sociale, che tenderà a passare in secondo piano nella tradizione novecentesca. Il suo dramma mette in scena la lenta decadenza dell’aristocrazia russa, occidentalista come tutte le aristocrazie militari: inutilmente colta, poliglotta, intrisa dalla testa ai piedi di cultura latina e amante della civiltà francese a cui guarda con spirito di emulazione.

Ma questa aristocrazia si situa in una realtà senza rapporti dialettici. Siamo in Russia e la borghesia è troppo fragile per minacciarne il potere plurisecolare. Né Čechov prova simpatie per il movimento anarco-populista al quale s’interessarono Dostoevskij e Tolstoj. L’aristocrazia čechoviana entra in crisi per ragioni che sono tutte interne alla sua classe: una sorta di processo di necrosi. Ma perché? Perché entra in crisi?

Certo, c’è il corrompimento dell’integrità morale: la proprietà Prozorov finirà ipotecata a causa dei debiti di gioco contratti da Andrej, l’irrequieto fratello che aspira vanamente a una cattedra universitaria a Mosca. Ma il motivo scatenante della crisi è un altro, di ordine metafisico. Il dramma si conclude con queste parole pronunciate da Ol’ga: «La banda suona così allegra, così giocosa, e sembra quasi che tra non molto potremo finalmente sapere perché viviamo, perché soffriamo… Saperlo! Oh, saperlo!»

Ecco. Questa aristocrazia non ha più coscienza di sé, ha smarrito il senso della sua funzione storica. È priva dell’«elemento maschile», nel senso metaforico di Gramsci e nel senso psicologico di Freud. La morte del padre, avvenuta un anno prima dell’inizio del dramma, potrà anche essere di sollievo per Andrej, che dalla sua autorità si sentiva schiacciato, ma getta la famiglia Prozorov allo sbando.

Naturalmente, Čechov non può che prendere le distanze da questa umanità alla deriva, e la sua ironia quasi brechtiana provvede a evitare ogni equivoco interpretativo. Siamo assolutamente al di fuori del naturalismo ottocentesco. Nello stesso tempo, però, il grande scrittore russo prova un moto di partecipazione per le sue creature, e occorre rendere merito a Castri per avere dato risalto a questa fertile doppiezza.

A me viene in mente un’ultima suggestione, Il cielo sopra Berlino. Come l’angelo wendersiano, Čechov osserva l’umanità dei suoi personaggi da lontano, con occhio stupito: li osserva correre verso la rovina, senza poterli fermare, senza potere fare nulla. Ma quanto li ammira, questi personaggi che conservano una ricchezza d’animo che la sofferenza non riesce a soffocare! Perché nella sventura la vita pulsa anche più forte che nella serenità.

È un accostamento eccessivo? Non troppo, considerato che in tutta la storia del cinema non c’è autore più čechoviano di Wenders. Così lontano, così vicino.

Tre sorelle
di Anton Čechov
regia Massimo Castri
con Mauro Malinverno, Claudia Coli, Bruna Rossi, Laura Pasetti, Alice Torriani, Paolo Calabresi, Sergio Romano, Roberto Salemi, Milutin Dapcevic, Renato Scarpa, Roberto Baldassari, Angelo Di Genio, Miro Bandoni ● scene e costumi Maurizio Balò ● luci Gigi Saccomandi ● Produzione Teatro di Roma

mercoledì 14 novembre 2007

Le coop senz’anima

Non so per quale ragione l’ufficio stampa di Marsilio abbia voluto mandarmi Falce e carrello, il veemente libro di Bernardo Caprotti (con prefazione di Geminello Alvi) che, documenti alla mano, cerca di dimostrare che molte iniziative di Esselunga sono state ostacolate da Legacoop con l’appoggio delle amministrazioni locali. Non sono un economista e, anche se severamente critico nei confronti della mia parte politica, rimango un uomo di sinistra. Ma proprio per questo ho letto il libro (che altrimenti mi sarebbe passato inosservato) con maggiore interesse e attenzione.

Caprotti, ottantun anni, originario della Brianza, è l’imprenditore che ha introdotto i supermercati in Italia, e ancora oggi è alla guida della sua creatura: Esselunga. Non sono in grado di valutare la fondatezza del suo j’accuse. D’altronde, il suo è il punto di vista di chi è parte in causa. Il lettore serio e obiettivo dovrebbe sentire anche la voce della controparte. Di sicuro, si può dire che questo è un libro che vale la pena di consigliare. Per quel che mi riguarda, mi sento comunque di fare alcune osservazioni a margine.

La Legacoop (come ricorda Stefano Filippi nel lungo saggio pubblicato in appendice) fu fondata nel 1886 e raccoglie l’eredità delle società mutualistiche nate allo scopo di «migliorare le condizioni familiari e sociali dei soci». Ma è solo nel secondo dopoguerra, nell’Italia del miracolo economico, che Legacoop conobbe una progressiva espansione fino a trasformarsi in un vero e proprio impero economico. Oggi, con oltre 50 miliardi di euro, il gruppo è per fatturato la terza impresa italiana (dopo ENI e FIAT-IFI). Ha società quotate in Borsa, possiede assicurazioni e supermercati, costruisce case, è attivo nel settore delle grandi opere e, di recente, è entrato anche in quello dei telefonini.

Un tale gigante non persegue più scopi solidaristici, è un operatore economico a tutti gli effetti. Lo stesso Bruno Trentin, ex segretario della CGIL, lo ha detto in modo colorito quanto efficace: «Le cooperative hanno perso l’anima.» E i lavoratori che vi sono occupati non hanno affatto condizioni migliori che altrove. È giusto che le cooperative continuino a godere di un regime fiscale estremamente favorevole e di un’ampia serie di privilegi? No. La sinistra guidata dal PD, se vuole essere coerente con i propri principi, farebbe bene a ripensare all’intero sistema cooperativistico. Ne guadagnerebbe in chiarezza, ed eviterebbe di trovarsi di nuovo esposta a critiche pesanti sul piano elettorale come quelle che hanno fatto seguito alla tentata scalata di UNIPOL alla BNL.

Del resto, è venuta meno anche la finalità politica delle cooperative, la cui espansione coincide non solo con gli anni del boom ma anche con quelli della Guerra Fredda. Allora, per la sinistra comunista, era importante ramificarsi nel territorio attraverso una varietà di cinghie di trasmissione. E nelle regioni rosse le cooperative sono state anche più importanti delle sezioni di partito. Ma oggi la formazione e l’organizzazione del consenso passa attraverso altre vie. D’altronde, se è vero, come assicurano gli ex dirigenti DS, che il «collateralismo è finito» (e cioè che le cooperative sono ormai indipendenti dal partito), allora dovrebbe essere caduto anche l’ultimo ostacolo alla riforma: il tornaconto economico.

Tuttavia il libro di Caprotti può essere letto anche da un’altra angolazione, e cioè come un affascinante capitolo, scritto in prima persona, della storia dell’industria e del capitalismo in Italia. Ed è istruttivo rileggere le lotte sindacali dalla prospettiva di chi stava dall’altra parte della barricata: si capiscono molti degli errori compiuti. Ma bisogna anche dire quello che l’autore-imprenditore tace. Caprotti appartiene a una borghesia operosa, dotata di un forte senso civico (proviene da una famiglia antifascista) e cresciuta nel culto del lavoro. Quella borghesia non esiste più. Il capitalismo italiano, come quello internazionale, batte ormai altre strade. Lo ha ben documentato Luciano Gallino in L’impresa irresponsabile (edito da Einaudi nel 2005). Anche il capitalismo è rimasto senz’anima.

Bruno Caprotti Falce e carrello
prefazione di Geminello Alvi, MARSILIO, pp. 192, € 12,50

venerdì 9 novembre 2007

Le lingue di Mircea Eliade

Quale prezzo è lecito pagare per risalire «all’inarticolato momento del Principio»? Si potrebbe sintetizzare così – con questa domanda senz’altro enigmatica – il senso di Un’altra giovinezza, il film che Francis Ford Coppola ha tratto dall’omonimo romanzo di Mircea Eliade, edito da Rizzoli. Confesso di essere andato a vederlo senza aver letto nulla prima (ignoravo persino che il controverso intellettuale rumeno avesse scritto dei romanzi). Non so quindi come lo abbiano interpretato gli altri. Di un film così mi sento di parlare solo per punti.

Il plot. Indubbiamente, Eliade ha doti di grande soggettista. La storia prende avvio da una felice trovata, una di quelle che tutti quanti vorremmo avere. E che non riassumo, per non rovinare la sorpresa a chi ancora non avesse visto il film.

L’armonia incompiuta. In questa storia, con un inizio tanto folgorante, si affastellano tuttavia troppi ingredienti che non riescono ad armonizzarsi fra loro. Il risultato è una vicenda involontariamente barocca, intellettualistica e con un’ossatura traballante. La causa va cercata nell’esuberanza di Eliade, che scriveva troppo e troppo in fretta. Ma mi hanno sempre affascinato le storie di questo genere, che ambiscono potenzialmente al capolavoro ma si arrestano prima di arrivare alla compiutezza. Perché attraverso di esse – e cioè attraverso i molti spigoli rimasti, le ruvidezze, i passaggi incerti – si coglie la fatica dell’arte. Si può sbirciare nell’officina dell’autore e vederlo alle prese con una materia che oppone resistenza alla volontà creatrice. E così indipendentemente dalla sostanza di cui è composta la materia: parole, pigmenti, suoni, marmi, legno…

Il tempo. In questa storia ci si muove, avanti e indietro, lungo la linea del tempo. È un altro dei temi che mi interessano molto, e non vi trovo niente di fantascientifico o di fantastico. Vi vedo piuttosto una trasposizione letteraria di quanto facciamo ogni giorno. Quello che chiamiamo passato in realtà vive attorno a noi, nelle città e negli edifici che abitiamo, nelle parole che utilizziamo… Il senso della storia ci insegna a confrontare le differenze del divenire, ma il piacere della lettura ci fa ancora dialogare con Omero, Dante o Shakespeare come se fossero dei contemporanei.

Le lingue. Eliade ha probabilmente tentato un’impresa impossibile: è difficile infatti raccontare narrativamente le lingue. Ma, come mostra la tragedia, anche nel fallimento si può essere grandi. E di sicuro Eliade è stato grande nel trasmetterci l’amore per le lingue, antiche e moderne. A quell’amore sono particolarmente sensibile. Invidio chi conosce tante lingue. Non solo perché la realtà acquista senso unicamente nel momento in cui viene verbalizzata. Ma anche perché solo per mezzo delle lingue possiamo avvicinarci a quel Principio che, per il faustiano protagonista del racconto, rappresenta la fissazione di una vita. Secondo me, è qui la chiave di lettura, lo spitzeriano click: Dominic Matei come moderna incarnazione di Faust, al quale lo accomunano i poteri magici e il rimpianto d’amore.

Il click. Si può sacrificare l’amore per un’assoluta vocazione al sapere? O l’amore mette in crisi ogni vocazione? E se, scegliendo la vocazione al sapere, il sacrifico fosse fallimentare? Se restiamo con un pugno di mosche? («The Tree of Knowledge is not that of Life» ricorda un altro faustiano personaggio: il Manfred di Byron.) Avremo un’altra opportunità, un’altra giovinezza? E, avendola, per quale scopo la useremo? La saggezza degli anni ci consentirà di evitare i medesimi errori?

La Storia. Mi piacciono le storie che non ignorano la Storia. Eliade avrebbe potuto ambientare il suo plot in un tempo e in uno spazio “vuoti”, senza riferimenti agli avvenimenti del destino umano. Poteva scegliere la strada della metafora, dell’allegoria, della parabola. Invece, ha deciso che la nuova giovinezza del suo protagonista dovesse coincidere con la sventura dell’Europa: la dominazione nazista. Le contrapposizioni simboliche forse appesantiscono ancor più i contenuti. Ma, narrativamente, la scelta è efficace, perché conferisce al personaggio una più robusta solidità.

La regia. Mi piacciono i registi che hanno il senso dei dettagli, e in questo Coppola è maestro: il ventilatore sopra la scrivania, i cerchi del fumo di sigaretta… C’è da chiedersi come gli venga in mente di disporre certi oggetti in una scena o di suggerire agli attori determinati gesti. Meno mi sono piaciute le luci: troppi azzurri, troppi rossi (il tramonto da cartolina, le tre rose), troppo manierismo. Avrei preferito una maggiore sobrietà. Straordinaria la recitazione: grandissimo Tim Roth, sempre notevole Bruno Ganz (vorrei tanto rivederlo in Dans la ville blanche, diretto da Alain Tanner).

martedì 6 novembre 2007

Tanto rumore per nulla

Quando, dopo l’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush varò una serie di misure antiterrorismo che limitavano le libertà individuali, espressi il mio dissenso sul settimanale per il quale allora lavoravo. Ma capivo il senso di quelle scelte. Devo confessare invece che, in questi giorni, seguendo la polemica sul diritto alla sicurezza che occupa le prime pagine dei giornali italiani, mi è difficile capire di che cosa si parli in concreto e soprattutto quali scopi si intendano perseguire. Mi sembra, quanto meno, che si sovrappongano con una certa disinvoltura tre problemi attigui ma distinti: quello dei rom, non integrabili o difficilmente integrabili; quello degli immigrati dell’est, potenzialmente integrabili; e quello della microcriminalità in generale.

Esiste un’emergenza come quella che dovette affrontare Bush? Nient’affatto. Questi sono gli ordinari problemi che uno Stato deve affrontare di volta in volta, sapendo che potrà tutt’al più ridurli ma mai risolverli una volta per sempre. A meno di voler fare come lo Stato fascista che, per dare l’impressione di aver riportato l’ordine nel Paese, pensò bene di censurare le pagine di cronaca nera dei quotidiani e di impedire che i romanzi polizieschi avessero protagonisti italiani.

Forse è vero che dalla società italiana proviene una «domanda di sicurezza». E capisco che a Fini & Co. non paia vero di poter cogliere un’occasione per rafforzare a poco prezzo il loro consenso elettorale. Ma converrebbe fermarsi a riflettere su che cosa vuol dire realmente quella domanda. Finora mi sembra che la discussione si sia concentrata tutta sugli stranieri. Vuol dire che l’opinione pubblica chiede di cacciare gli immigrati? Anche quelli della UE, come sono i rumeni? In tal caso, il governo rischia di far propria una presa di posizione mistificante. È comodo pensare che il problema della sicurezza si riduca essenzialmente al problema dell’immigrazione. Ma non è così.

Per rendersene conto, e per non scostarsi troppo dall’attualità (la violenza alle donne), basta andare a rileggersi l’indagine Istat presentata a Palazzo Chigi lo scorso 21 febbraio. Da quei dati risulta che la maggioranza degli stupri e delle violenze a danno delle donne italiane (ben il 69,7%) deriva da partner o ex-partner. I fatti di Tor di Quinto rappresentano l’eccezione, non la regola. Per punire reati di tale genere abbiamo già le leggi. Non si capisce perché non debbano bastare le consuete vie giudiziarie che, in uno Stato liberal-democratico, reprimono a posteriori il responsabile del delitto, senza invocare una preventiva nemesi etnica, che il diritto contemporaneo non può ammettere. «Giustizia senza vendetta» o vuol dire questo o non vuol dire niente.

Semmai i dati Istat suggeriscono di ripensare il ruolo della famiglia o, almeno, di rimettere in discussione la falsa immagine, salvifica e aproblematica, che ne viene data. Forse è chiedere troppo. Ma se questo non lo fa la sinistra, chi altri lo può fare? D’altra parte, varrebbe la pena di chiedersi se è proprio vero che le minacce alla sicurezza hanno raggiunto, rispetto al passato, livelli insostenibili che oltrepassano il grado fisiologico di criminalità in uno Stato democratico. Se la risposta è positiva (cosa che io non credo), allora attribuire una maggiore licenza d’azione ai prefetti sarebbe il minimo.

Vogliamo dirlo? I diritti sono in conflitto fra loro: dare la priorità a uno vuol dire ridimensionarne un altro e viceversa. Si può difendere seriamente il diritto alla sicurezza solo limitando le libertà individuali, a cominciare dal diritto alla privacy. Così è avvenuto nell’America di Bush, così è avvenuto nell’Italia degli anni di piombo, quando esisteva una reale emergenza. Coloro che chiedono più sicurezza sarebbero disposti a rinunciare a una parte della loro libertà o pretendono che la magistratura indaghi solo sugli altri: gli alieni, i mostri, gli stranieri, i disgraziati, i poveri cristi? Naturalmente, né il governo di centrosinistra né l’opposizione di destra pretendono di arrivare a tal punto.

La nostra odierna classe politica non vuole scontentare nessuno: strizza l’occhio a quelli che chiedono il polso di ferro e, insieme, a quelli che reclamano maggiori libertà e più tolleranza. E non sceglie, non decide: cavalca l’emozione del momento. La destra non fa eccezione. Quando era al governo, si è dimostrata più severa verso l’immigrazione extracomunitaria, perché sensibile ai voti popolari dei quartieri periferici che la sinistra, ormai attenta solo ai ceti medi, ha abbandonato al proprio destino, ma ha messo i bastoni fra le ruote ai giudici, per venire incontro alle necessità della nicchia più spregiudicata del capitalismo italiano, ma di fatto ostacolando l’intero corso giudiziario. Per questo, ho il sospetto che si faccia tanto rumore per nulla.

Ma, personalmente, non sarei nemmeno sicuro che più integrazione, più lavoro e più giustizia sociale (i sacrosanti scopi tradizionali della sinistra illuminista) vogliano dire più coesione e quindi minori tensioni civili. La storia, purtroppo, non dà ragione all’illuminismo. Democrazia e libertà avvantaggiano l’onesto quanto il disonesto. L’unico strumento che abbiamo, per quanto debole, è il governo della legge. Non certo quello della demagogia.

lunedì 5 novembre 2007

Il Galileo di Brecht

Appartengo a una generazione che per ragioni anagrafiche non ha fatto in tempo a vedere l’allestimento della Vita di Galileo di Giorgio Strehler con Tino Buazzelli. Questo mi ha permesso di apprezzare meglio l’odierna edizione (molto sfrondata rispetto all’originale) di Antonio Calenda, con l’ottimo Franco Branciaroli: certamente, uno dei grandi avvenimenti culturali di quest’anno. D’altra parte, a Milano, nel teatro intitolato a Strehler (che rimane uno dei migliori per acustica e visibilità) è impossibile non avvertire un sovrappiù di emozione.

Il testo è uno di quelli teatralmente più ostici. Non solo per la sua complessità tematica. Ma anche perché è costruito, di fatto, intorno a un unico personaggio centrale, che richiede all’interprete un’abilità e una misura da mattatore, capace di affacciarsi sul tragicomico e di rimanervi in bilico, senza cadere al di là: l’insistenza sul cibo si trascina dietro il ricordo della commedia («mi piace mangiar bene, e di solito è quando mangio che mi vengono le buone idee»), ma lo trapianta nel dramma contemporaneo. Il rischio è quello di strafare o, viceversa, di appiattire le tante sfumature di questo antieroe.

Il punto di vista degli avversari di Galileo (il potere e l’opinione pubblica) non trova invece espressione in un antagonista a tutto tondo, dalla personalità corposa, come può essere Claudio, re di Danimarca, in Amleto (l’altro grande capolavoro del dubbio, sia pure di tutt’altra natura). Si frammenta piuttosto nelle battute di figure minori, schizzate in modo unidimensionale: la signora Sarti, interprete di un pragmatico quanto miope buonsenso; il procuratore dello Studio di Padova Priuli; il pavido filosofo («Signor Galilei, la verità può portarci chissà dove»), la vacua figlia Virginia, i cardinali, eccetera.

Di qui, l’ampio spazio riservato all’analisi di coscienza di questo Galileo che ha sì una visione netta e chiara di che cos’è scienza ma, come noto, è anche tormentato da profonde incertezze interiori rispetto alla sua umanità e al suo ruolo di intellettuale. La scelta di Calenda di far indossare a Branciaroli la giacca “cinese” di Brecht (gli altri personaggi, ad eccezione del felliniano cantastorie, sono in costume d’epoca) accentua forse troppo una simbologia già sovraccarica nel testo. In compenso, il regista sottolinea in maniera molto persuasiva questo esame di coscienza del protagonista, che in gran parte incrina la poetica brechtiana del teatro epico, e trascina nel suo campo magnetico anche le figure a lui più vicine, al punto che queste ultime sembrano quasi delle proiezioni della sua coscienza.

È certo infatti che la tormentata trasformazione del discepolo Andrea Sarti e dell’amico Sagredo (dalle certezze consolidate al dubbio) replica un’analoga e ancor più tormentata maturazione che lo stesso Galileo deve aver compiuto in un tempo precedente al dramma. Non potrebbe insistere tanto nell’affermare che la scienza vive solo nel dubbio, se egli stesso non avesse vissuto quel dubbio sulla propria pelle. Il suo sarcasmo ha l’aspetto dell’ironia socratica, e non a caso il suo destino è analogo a quello del filosofo greco, a cui lo unisce anche la consapevolezza di non sapere («Sono stupido io. Non capisco niente di niente. Perciò sono obbligato a turare i buchi della mia conoscenza»). E ciò, anche se a differenza di Socrate, sfugge al tragico destino: per debolezza o codardia, certo, ma anche perché l’età della tragedia è definitivamente tramontata insieme all’universo politico-sociale che l’ha prodotta. Il giudizio di Brecht (nonostante i diversi ripensamenti nel corso delle tre stesure) è tutt’altro che categorico: l’autore prende le distanze dal suo personaggio, ma gli riconosce quel realismo delle «mani sporche», che nel 1948 Jean-Paul Sartre fece proprio elevandolo a morale positiva, contrapposta al velleitarismo dell’utopia rivoluzionaria.

Ma che cosa conserva di attuale questo capolavoro della drammaturgia contemporanea? Certo, non il conflitto tra scienza e potere o scienza e Chiesa, che era già risolto ai tempi in cui Brecht scriveva (e che, coerentemente, Calenda ridimensiona). La scienza ha risolutamente vinto la sua battaglia. È vero che, nel dramma, Galileo ricorda di continuo il destino di sconfitta di Copernico e Bruno. Ma questi due intellettuali sono stati sconfitti soltanto sul piano umano. Se Galileo li può citare è perché le loro ipotesi sopravvivono e travalicano la loro esistenza personale (lui stesso, d'altronde, afferma che un’opera di scienza non può essere scritta da un uomo solo). Il potere ha la facoltà di reprimere gli uomini, non di arrestare lo sviluppo delle idee.

Quello che rimane attuale, secondo me, è piuttosto il conflitto tra verità e ideologia, che è un tema più ampio e problematico. Naturalmente, Galileo ha una concezione della verità scientifica prenovecentesca: per lui, ciò che è vero, contrapposto a ciò che si crede, è quello che si può vedere sperimentalmente con i propri occhi, attraverso l’ausilio di appropriati strumenti (il telescopio). A tal proposito, c’è una scena famosa, molto emblematica. Trasferitosi dalla Repubblica di Venezia alla corte dei Medici a Firenze, Galileo riceve nel suo studio un filosofo e un matematico, e li invita a guardare nel telescopio le nuove «stelle medicee», come le ha battezzate con furbizia. Il filosofo gli chiede prima la «cortesia di una disputa», in pieno stile medievale. Lo scienziato risponde: «Permettetemi un consiglio: cominciate col dare un’occhiata. Vi convincerete subito.» Ma i suoi interlocutori rifiutano ostinatamente, e dopo un’accesa discussione il matematico mette termine così alla discussione: «Se fossi sicuro di non irritarvi ancor più, mi permetterei di affacciare la possibilità che ciò che si vede attraverso l’occhiale sia ben diverso da ciò che è nel cielo.»

Siamo di fronte al contrasto più forte di tutto il dramma. Da una parte, c’è il punto di vista di Galileo che confida nell’autoevidenza della verità, che ha bisogno soltanto di essere guardata. Dall’altra, quella di chi, accecato dall’ideologia, rifiuta di guardare, ritenendo che se quanto vediamo è in contrasto con quel che dimostra l’auctoritas (in questo caso, Aristotele), allora vuol dire che i sensi ci traggono in inganno. Branciaroli sottolinea con un breve ma eloquente silenzio la reazione sbigottita di Galileo. È il silenzio di chi, dopo essersi illuso della forza della ragione umana, si accorge all’improvviso che è vano discorrere con i sordi.

Ma, forse, è anche il silenzio di chi, almeno per un istante, valuta la possibilità che gli avversari, nell'errore, abbiano tuttavia ragione. Galileo non conosce Nietzsche, non conosce Einstein, non conosce Max Planck. Ma Brecht sì, è cresciuto a pane e avanguardia. Sa molto più del suo personaggio. Sa che anche quella verità scientifica che Galileo pretende di ricostruire per mezzo di un telescopio è parziale e, a sua volta, mischiata all’ideologia. Sa che la scienza contemporanea ha rinunciato a parlare in termini di verità e di ragione: non ci garantisce più che le sue scoperte sono vere, si limita a dirci che sono probabili.

La scienza ha vinto la sua lotta con il potere. Ma è stata costretta a riconoscere di non essere di gran «vantaggio all'umanità». Si presenta, per sua stessa ammissione, debole, incapace di riscrivere il maestoso libro della physis. Concettualmente debole. Non ha più quella fiducia nel sapere e nella rigenerazione civile che il Galileo brechtiano continua a coltivare fino all’abiura, tende piuttosto a ridursi a tecnica e a confondersi con questa che è la sua più formidabile creatura. E ciò la espone alle manipolazioni che ben conosciamo. E che Brecht non poteva ignorare.

Vita di Galileo
di Bertolt Brecht
traduzione Emilio Castellani
regia Antonio Calenda
con Franco Branciaroli e (in ordine alfabetico) Lello Abate, Giancarlo Cortesi, Daniele Griggio, Giorgio Lanza, Lucia Ragni ● scene Pier Paolo Bisleri ● costumi Elena Mannini ● musiche Germano Mazzocchetti ● luci Gigi Saccomandi ● coproduzione Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e Teatro de Gli Incamminati

giovedì 1 novembre 2007

Andersen e la democrazia

Nel suo commento del 18 ottobre, Greystoke ha scritto con efficacia metaforica: «Nelle stanze del Palazzo si respira un’aria di insicurezza. La maschera mediatica è ormai sgualcita, si è aperto uno squarcio nel cielo di carta del teatrino politico». Non credo che intendesse unirsi al coro di quanti sostengono che il governo Prodi (che pure, certo, non gode di buona salute) sia arrivato al capolinea. Conoscendo le sue simpatie pasoliniane, mi sembra più probabile che volesse richiamare l'attenzione sulla perdita di vitalità del nostro “sistema”: cioè il modello di democrazia e di organizzazione sociale che si è storicamente realizzato in Italia e in Occidente. Così intese, le sue parole suggeriscono alcuni spunti di riflessione.

1) Anzitutto, è utile precisare che un’aggiornata riflessione critica sulla democrazia e sul capitalismo non scaturisce, necessariamente, dal velleitarismo ideologico. È lecito dissentire da ogni nostalgia per i grandi Balzi in Avanti del passato recente e, nello stesso tempo, chiedersi se per caso il modello politico-sociale uscito vittorioso dalla Guerra Fredda non si porti dietro delle contraddizioni che rischiano di alterare o addirittura capovolgere i suoi scopi. Certo, si può osservare con soddisfazione che la democrazia è andata conquistando sempre più Stati al mondo: secondo il censimento della Freedom House, siamo passati dalle ventidue democrazie del 1950 alle attuali ottantacinque. Ma questa non dovrebbe essere una scusa per chiudere gli occhi di fronte ai mali congeniti alle democrazie dell'Occidente, a cominciare dall’inadeguatezza dei governi a contrastare l’anarchia finanziaria e dal cedimento della politica alle tentazioni della demagogia (una deviazione, quest'ultima, che di recente ha denunciato, sulle pagine del «Corriere della Sera», anche un liberale DOC come Giovanni Sartori).

2) Il re è nudo: si potrebbero sintetizzare così le parole di Greystoke. Anche nella fiaba di Andersen, tuttavia, non basta che il re sia nudo: è necessario che i sudditi ne prendano atto e che non si ostinino, per piaggeria o per paura, a negare l'evidenza di quel che sembra un'assurdità inconcepibile. Ma neppure la «voce dell’innocenza», che dice ciò che gli altri tacciono, è di per sé sufficiente. Perché, in assenza di alternative, i sudditi potrebbero convincersi che bisogna tenersi il re che è toccato in sorte, malgrado l’esibizione delle sue vergogne. E nemmeno la presenza di un’alternativa è in quanto tale sufficiente. È vero, come osserva Machiavelli, che «li uomini mutano volentieri signore credendo migliorare», ma solo per accorgersi subito dopo di «avere peggiorato». La disillusione dell’esperienza storica potrebbe indurre i sudditi a ritenere che, a conti fatti, è preferibile un re nudo – ma di cui sono note le debolezze – a un’alternativa che promette molto ma della quale sono ignote le potenzialità negative. Lo scetticismo ha le sue buone ragioni, e sarebbe sbagliato liquidarlo snobbisticamente. Se vuole affermarsi, il nuovo che avanza (quando esiste) ha sempre l'obbligo di confrontarsi con la saggezza dell’esperienza consolidata. E sforzarsi di proporre una diversa e più fertile filosofia della storia.

3) Nella fiaba di Andersen (di argomento eminentemente politico), il re si espone nudo di fronte ai sudditi a causa della sua vanità: la passione per le stoffe e i vestiti. «Mentre di solito di un re si dice che è nella sala del Consiglio, di lui si diceva soltanto: “È nel vestibolo!”» Trascura, insomma, gli affari del governo a vantaggio dell’apparenza. Poiché le fiabe, come i miti, mettono in scena strutture profonde dell’anima e della società, che scavalcano i limiti temporali, non sarebbe troppo anacronistico leggervi una metafora della sudditanza al potere mediatico a cui si adeguano, per scelta o per forza, tutti i leader contemporanei (non solo italiani, non solo dell’Occidente).

4) Ma, a mio parere, è un altro il cancro che rischia di esaurire la nostra democrazia, e cioè la sua debolezza decisionale. Per sua natura, la democrazia è costretta a riconoscere (e disciplinare) un numero sempre crescente di diritti che, a loro volta, sono per definizione in conflitto tra loro. Con la conseguenza che i governi si trovano a dover affrontare un numero sempre maggiore di problemi (sconosciuti alle origini delle democrazie) e, allo stesso tempo, sono sempre meno nelle condizioni di governare, perché nell’era della globalizzazione i problemi maggiori sfuggono ai confini nazionali. Di qui, lo scandalo di un apparato di governo sempre più elefantesco e burocratizzato, al quale non corrisponde un’adeguata efficienza nell’azione.

5) Naturalmente, la complessità di tali questioni richiederebbe un approccio ben più approfondito. Qui, si vuole solo ricordare che, così come è esistito un socialismo reale che era l’opposto dell’ideale socialista ma nello stesso tempo ne portava alla luce le contraddizioni interne, analogamente esistono una democrazia e un capitalismo reali che hanno poco da spartire con quella democrazia e quel libero mercato immaginari le cui virtù sono universalmente e fin troppo acriticamente decantate. Ma la critica, se vuole essere tale, non può ammettere alcun principio sacro: nonostante la sua voce non sia mai quella dell’«innocenza» di cui parla Andersen, ha l’obbligo di mettere in discussione anche le materie più scabrose.

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