lunedì 19 novembre 2007

Le sorelle di Čechov

Era da almeno una dozzina d’anni che non rivedevo Le tre sorelle di Anton Čechov. E, se avevo ben presente la storia, non ricordavo tuttavia quant’è potente la sua carica innovativa. Questo capolavoro della drammaturgia contemporanea è un vero e proprio concentrato di modernità. Non ha perso niente della sua freschezza. Ne rende pienamente conto la regia di Massimo Castri, che riesce a tenere insieme tutti i complessi fili del racconto, senza lasciare che un tema prenda il sopravvento sull’altro.

Il testo, del resto, richiede uno sforzo di recitazione fuori del comune. Sarebbe fin troppo facile affogare la poetica čechoviana nel minimalismo o eccedere in certe accensioni melodrammatiche. In questo, Castri è stato più che convincente, è riuscito a tirare fuori il massimo dai suoi attori: capaci di reggere alle tante sfumature del testo e di variare impeccabilmente l’intonazione della voce o i gesti a seconda del registro, che spazia dal drammatico all’umoristico a una fragorosa vivacità da operetta (commovente per bellezza l’uscita di scena a metà del primo dei due atti in cui è stato ridotto il dramma, originariamente in quattro).

Sulle Tre sorelle si è scritto molto. Perciò, mi permetto di concedermi un gioco: il gioco delle associazione letterarie. Me ne sono venute in mente tante, durante lo spettacolo. Ne cito qui qualcuna, perché esercizi di tale genere aiutano a riflettere sull’unità culturale dell’Europa e sul suo senso della crisi. Incomincio da Madame Bovary.

L’insofferenza per la monotonia della vita in provincia e l’ansia di un altrove morale che accomuna le sorelle Prozorov («Andare a Mosca! Vendere la casa, liquidare tutto qui, e via a Mosca!») è comune al grande personaggio di Flaubert, ed esprime la nostalgia di una pienezza esistenziale che continua a essere attesa e rincorsa, ma che non sarà mai trovata perché, in realtà, appartiene al passato, a quel paradiso perduto che è l’infanzia.

A differenza di Flaubert, tuttavia, Čechov ha studiato da medico, come Freud: ragiona da scienziato, in modo analitico. Deve accertare tutte le possibilità fenomenologiche: non gli basta un solo personaggio per investigare la psiche (scrive del resto nel 1901, un anno dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni). Deve moltiplicarlo, per ambizione di completezza. Ol’ga, Maša, Irina e il fratello Andrej hanno lo stesso DNA, sono parte di un comune destino. Ma, nel contempo, di quel destino mettono in luce aspetti differenti: rappresentano diverse sfaccettature della medesima psiche collettiva.

L’essenziale scenografia evidenzia molto bene le tensioni del mondo familiare in cui si trovano a vivere. Per tutto il dramma, la scena è occupata da pochissimi oggetti: un grosso tavolo rotondo, una dozzina di sedie e altrettante valigie. La simbologia è chiara. Da una parte, il radicamento vissuto come costrizione metafisica (le sedie che trattengono i personaggi , in una casa spaziosa quanto asfittica). Dall’altra, il desiderio di cambiamento, la prossimità di una partenza sognata e sempre rimandata.

Ma quelle valigie mi richiamano alla memoria anche En attendant Godot. L’attesa è uno dei temi centrali della letteratura novecentesca (e si potrebbero ricordare tanti altri titoli, a partire da Il deserto dei tartari di Buzzati). Non mi meraviglierei se, in qualche modo, il dramma di Čechov avesse contribuito a ispirare Beckett. Il raffronto è meno azzardato di quanto sembri. Ci sono tante battute che sembrano anticipare il teatro dell’assurdo (un esempio: «Se la stazione fosse vicina non sarebbe lontana, ed essendo lontana non è vicina», afferma Solënyj). E le discussioni fra le sorelle e i loro ospiti attorno a quella grossa tavola, per la loro inconsistenza quotidiana e l’impossibilità di una reale comunicazione, sembrano tanto anticipare i colloqui strampalati della Cantatrice calva di Ionesco. Forse è solo una mia suggestione. Eppure, è difficile non intravedere nelle Tre sorelle anche potenzialità di tale genere.

Certo, Čechov non può portare alle estreme conseguenze le novità della sua fantasia creatrice. Ha una formazione ottocentesca, rimane al di qua dell’avanguardia: avverte il bisogno di dare un ordine circolare alla sua storia. Il suo intento è quello di proporre un’aggiornata Comédie humaine. Assolutamente esplicita. Non a caso, il medico Čebutykin, leggendo il giornale, afferma meravigliato: «Balzac si è sposato a Berdicev.» È il riconoscimento, naturalmente ironico, di un’eredità culturale.

D’altronde, come Balzac, anche Čechov non può ignorare la realtà sociale, che tenderà a passare in secondo piano nella tradizione novecentesca. Il suo dramma mette in scena la lenta decadenza dell’aristocrazia russa, occidentalista come tutte le aristocrazie militari: inutilmente colta, poliglotta, intrisa dalla testa ai piedi di cultura latina e amante della civiltà francese a cui guarda con spirito di emulazione.

Ma questa aristocrazia si situa in una realtà senza rapporti dialettici. Siamo in Russia e la borghesia è troppo fragile per minacciarne il potere plurisecolare. Né Čechov prova simpatie per il movimento anarco-populista al quale s’interessarono Dostoevskij e Tolstoj. L’aristocrazia čechoviana entra in crisi per ragioni che sono tutte interne alla sua classe: una sorta di processo di necrosi. Ma perché? Perché entra in crisi?

Certo, c’è il corrompimento dell’integrità morale: la proprietà Prozorov finirà ipotecata a causa dei debiti di gioco contratti da Andrej, l’irrequieto fratello che aspira vanamente a una cattedra universitaria a Mosca. Ma il motivo scatenante della crisi è un altro, di ordine metafisico. Il dramma si conclude con queste parole pronunciate da Ol’ga: «La banda suona così allegra, così giocosa, e sembra quasi che tra non molto potremo finalmente sapere perché viviamo, perché soffriamo… Saperlo! Oh, saperlo!»

Ecco. Questa aristocrazia non ha più coscienza di sé, ha smarrito il senso della sua funzione storica. È priva dell’«elemento maschile», nel senso metaforico di Gramsci e nel senso psicologico di Freud. La morte del padre, avvenuta un anno prima dell’inizio del dramma, potrà anche essere di sollievo per Andrej, che dalla sua autorità si sentiva schiacciato, ma getta la famiglia Prozorov allo sbando.

Naturalmente, Čechov non può che prendere le distanze da questa umanità alla deriva, e la sua ironia quasi brechtiana provvede a evitare ogni equivoco interpretativo. Siamo assolutamente al di fuori del naturalismo ottocentesco. Nello stesso tempo, però, il grande scrittore russo prova un moto di partecipazione per le sue creature, e occorre rendere merito a Castri per avere dato risalto a questa fertile doppiezza.

A me viene in mente un’ultima suggestione, Il cielo sopra Berlino. Come l’angelo wendersiano, Čechov osserva l’umanità dei suoi personaggi da lontano, con occhio stupito: li osserva correre verso la rovina, senza poterli fermare, senza potere fare nulla. Ma quanto li ammira, questi personaggi che conservano una ricchezza d’animo che la sofferenza non riesce a soffocare! Perché nella sventura la vita pulsa anche più forte che nella serenità.

È un accostamento eccessivo? Non troppo, considerato che in tutta la storia del cinema non c’è autore più čechoviano di Wenders. Così lontano, così vicino.

Tre sorelle
di Anton Čechov
regia Massimo Castri
con Mauro Malinverno, Claudia Coli, Bruna Rossi, Laura Pasetti, Alice Torriani, Paolo Calabresi, Sergio Romano, Roberto Salemi, Milutin Dapcevic, Renato Scarpa, Roberto Baldassari, Angelo Di Genio, Miro Bandoni ● scene e costumi Maurizio Balò ● luci Gigi Saccomandi ● Produzione Teatro di Roma

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